Maurits Cornelis Escher (1898 – 1972) è stato un disegnatore olandese geniale, all’interno delle sue opere troviamo un’estetica psichedelica, formule matematiche e geometriche.
Per citare una sua celebre frase:
Le leggi della matematica non sono soltanto delle invenzioni o creazioni umane. Esse semplicemente sono: esistono in modo abbastanza indipendente dall’intelletto umano. Il massimo che chiunque possa fare è scoprire che stanno lì e prendere coscienza di esse.
Escher – Viaggio nell’infinito è un docu-film diretto da Robin Lutz, prodotto da Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema, la pellicola verrà proiettata nelle sale italiane il prossimo 16 dicembre.
Il lungometraggio racconta l’artista olandese attraverso i suoi stessi occhi, mostrando allo spettatore non solo la parte geniale che lo rende immortale artisticamente ma si sofferma sull’uomo e la sfera privata della sua vita, che non tutti conoscono.
Dal film emerge un quadro completo dell’artista che è riuscito a sovvertire le regole dello spazio attraverso un’espressione artistica bidimensionale e prospettive estreme, al limite del confine reale. Le sue opere hanno come tratto distintivo quello della distorsione che si unisce e si fonde ad immagini interiori ed esperienziali.
Escher – Viaggio nell’infinito ci conduce nei luoghi che sono stati fonte d’ispirazione per lui e grazie ad alcune interviste inedite fatte ai figli dell’artista ne riusciremo pienamente a cogliere il genio, cercando di osservare il mondo attraverso i suoi occhi.
La maggior parte del materiale raccolto proviene dalla Fondazione Escher, proprietaria di tutti i diritti e delle opere dell’autore.
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I quattro dell’Ave Donato Zoppo: 1969, Beatles, Harrison ed una canzone
Zebra Crossing in verticale sulla copertina di questo suo ultimo libro, come una foto in negativo, dati i colori invertiti, e quattro strisce nere in tutto, come a significare le quattro distinte personalità che furono i Beatles alla fine dei frizzanti anni 60.
John, Paul, Ringo e, soprattutto, lui, George, alias The Quiet One, il tipo più tranquillo dei quattro, dove dietro quella pacatezza si nascondono in realtà delle qualità ineccepibili, soffocate dall’incombenza creativa del duo Lennon- McCartney.
L’ultimo lavoro del giornalista e scrittore sannita Donato Zoppo, Something – Il 1969 dei Beatles e una canzone leggendaria (G.M. Press), per la collana Songs, consiste in una delicatissima ricerca nell’interiorità del chitarrista e compositore George Harrison, ed in particolare nella storia che interessò quest’ultimo durante la composizione del brano Something, compreso nel celebre disco Abbey Road – e rieccole le strisce!-, un album che pose davvero fine, anche se in una maniera stilistica davvero notevole, alla tormentata parentesi che interessò i Fab Four durante l’ultimo periodo della loro faticosa convivenza.
Sta in una tasca, questo libro, e se posso permettermi, la ridotta dimensione, insieme all’artwork molto minimal della copertina, donano a questo saggio una preziosità che ha bisogno però di essere svelata con la stessa destrezza con cui si legge un libro di ricette “finger food”; la sua ridotta mole di cento pagine racchiude in realtà un mondo che allo scrittore musicologo avrebbe occupato una considerevole porzione di tempo, e se si pensano alle meticolose ricerche svolte, e all’incredibile capacità di comprimere il tutto in una soluzione da “easy reading”, può far venire in mente, a qualche appassionato dell’età del jazz, l’eleganza con cui Pietro Citati descrisse nell’altresì piccolo saggio La Morte della Farfalla la focosa e infine tormentata vicenda di Francis Scott Fitzgerald e della sua Zelda.
Sì, signore e signori seguaci del rock ‘n roll: “l’amour fou” come quello dei Fitzgerald c’entra eccome in questa ultima fatica di Donato Zoppo: il brano che emerge dai delicati momenti di tensione, ma anche di straordinarie capacità interpretative e musicali degli ultimi Beatles, partorito dalla mente di George Harrison, Something, è in realtà una canzone d’amore, e probabilmente una delle più belle del secolo scorso, riadattata in qualcosa come altre centocinquanta cover interpretate da artisti famosi e non. La stupenda dedica che il chitarrista dei Beatles fece in onore di Patricia Anne Boyd, meglio conosciuta come Pattie, allora sua moglie, considerata come una delle muse ispiratrici del rock. Anche Layla di Eric Clapton fu scritta per lei, ma questo avvenne qualche anno dopo, e fu un’altra storia…
Quasi come a immaginare Brian Jones dei Rolling Stones, oggi pressoché dimenticato, che proprio in quel 1969 perse la vita a ventisette anni in circostanze misteriose, e rivalutarlo come se non avesse voluto mai soccombere ai fumi delle droghe e ai cocktail di farmaci e alcolici, e si fosse fatto rivalutare come la vera stella tra i mostri sacri Jagger e Richards, rinascendo a nuova vita.
Così George Harrison, per davvero, lavorò strenuamente per la paura che i suoi brani venissero rifiutati, tra la ragguardevole lista delle canzoni funzionalissime di John Lennon e Paul McCartney, e non si perse troppo d’animo, come Brian Jones – quest’ultimo però licenziato dagli Stones- , e senza dar spazio alle frustrazioni che gli suggerivano scarsa autostima, s’intromise con la forza delle sue ottime capacità inventive già nel mastodontico White Album dell’anno precedente.
Eravamo nel 1968 e gli scontri sociali incombevano, mentre i Fab Four davano vita al disco che ispirasse una “rivoluzione”, sia in termini di long playing che di iniziazione all’importanza dei Working Class Heroes lennoniani. Proprio lì il nostro George Harrison vi inserì un suo pezzo che conquistò un 45 giri, il lato B di Lady Madonna, ossia The Inner Light.
Altri ce ne furono in passato, e tutti accentuarono il tocco espressivo in continuo mutamento che gratifica ed intensifica gli album in questione, come la Taxman di Revolver del 1966.
Riaccostandoci ancora un’ultima volta al mito di Brian Jones, come quest’ultimo, anche George Harrison sviluppò la tecnica del sitar, particolare strumento a corde dal suono avvolgente, e Donato Zoppo, in tale occasione, ci ricorda quanto sia stato importante il suo avvicinamento alla cultura indiana, soprattutto se si prendono in considerazioni le “liaisons”che intercorrono tra questi esempi di artisti particolarmente ispirati e le altre culture, anche quelle all’apparenza più lontane, che in qualche modo hanno condizionato il loro modo di scrivere, e di porsi, soprattutto, intensificandone il riflesso ai più curiosi e organizzandone una vera e propria cultura di massa.
Donato Zoppo applica un ragionamento sano e funzionale, anche se volutamente sintetizzato al meglio, per irradiare la giusta luce su un personaggio chiave come George Harrison, che con la sua forza emotiva e il suo carisma, quest’ultimo però svelatosi in conseguenza alle rotture interne dei Beatles causate anche da scartoffie legali per i diritti d’autore da tutelare, arrivò addirittura a minacciare l’uscita dalla band, se gli altri non avessero tirato dritto e badato anche alle sue, di richieste. Lo fece anche Ringo, a suo tempo, l’anno precedente, e stranamente la data coincise perfettamente con l’istanza di divorzio di Cynthia Lennon nei confronti del marito.
Spiega Donato Zoppo:
Harrison è un po’ più distaccato rispetto alla fama, è attento a quello che gli accade intorno, dai guru indiani che inanella con devozione sulla copertina di Sgt. Pepper agli aspetti economici del suo lavoro, dall’interesse per la soul music e il folk rock all’amicizia con Bob Dylan. Mentre gli exploit individuali di John e Paul sono percepiti come interni al microcosmo Beatles (…), gli episodi firmati Harrison risultano come suoi, non organici al gruppo. In pratica un solista all’interno della sua band, le cui canzoni sono scatti d’individualità.
Insieme alla storia di una canzone, che è l’apoteosi del pensiero di un chitarrista mito; il 1969, anno di meraviglie musicali, concerti cult e di utopie figlie della fu Summer of Love; i Beatles, che attraversarono tutti i Sixties, influenzandoli con il loro stile in continuo mutamento; George Harrison, figlio di un’apertura musicale e culturale che avrebbe innalzato lo stendardo di più culture condivise; tutto ciò si affronta nel saggio Something.
Mi chiedo: questo percorso biografico sui Beatles, probabilmente iniziato da Donato Zoppo già nella prefazione al libro Revolution di Francesco Brusco, saggio che racconta il ’68 dei Fab Four, avrà dunque un sequel, così come ha affrontato negli anni le sue ricerche su Lucio Battisti?
Io spero di sì, considerando la qualità dei suoi lavori precedenti su Area, King Crimson, PFM, o Genesis, e spero davvero che ancora possa focalizzare l’attenzione su un musicista in particolare, valutandone la sua ottica all’interno di un microcosmo di una rock band, sottolineando gli effetti di un successo senza limiti, azzerandone le potenzialità d’immagine, ed acutizzando la valutazione caratteriale e comportamentale, e di quanto possa essere quest’ultima distorta dagli onori dell’Olimpo dei più Grandi.
Carmine Maffei
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Il cinema di Andy Warhol di Adriano Aprà ed Enzo Ungari
Andy Warhol ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo delle arti visive, imponendo un nuovo modello di fruizione artistica volto all’eliminazione in qualsiasi contesto culturale di ogni tipo di cesura tra arte e non-arte: non fa eccezione il cinema e la regia, disciplina in cui Warhol si è rivelato un estremo innovatore, spingendosi ben oltre i confini della mera provocazione e della contestazione dei canoni dell’arte tradizionale e borghese.
Nella presente monografia, gli autori passano in rassegna in maniera capillare il corpus filmico, restituendo – anche attraverso un ragguardevole apparato iconografico – per ciascuna opera un resoconto denso di dati tecnici, testimonianze, note e spunti critici, utili a ricostruire precisamente l’opera registica di Warhol e ad approfondirne lo stile e le più intime istanze creative.
Adriano Aprà: biografia
Nasce a Roma il 18 novembre 1940.
Saggista, storico e regista cinematografico, ha diretto la Cineteca Nazionale ed è stato Associato di cinema all’Università di Roma Tor Vergata.
Ha fondato e dirige il ‘festival espanso’ Fuorinorma.
Tra le sue pubblicazioni: Per non morire hollywoodiani (1999), In viaggio con Rossellini (2006), Breve ma veridica storia del documentario. Dal cinema del reale alla nonfiction (2017).
Come regista ha realizzato Olimpia agli amici (1970) e documentari sul cinema fra cui Rossellini visto da Rossellini (1992) e Circo Fellini (2010).
Ha diretto con Augusto Contento Rosso cenere (2013).
Ha co-sceneggiato La maschera (1988) di Fiorella Infascelli e collaborato a In viaggio nel crepuscolo (2021) di Augusto Contento.
Enzo Ungari: biografia
Nasce a La Spezia il 13 luglio 1948, sotto il segno del Cancro.
Trasferitosi a Roma, comincia a lavorare alla rivista «Cinema e Film».
Collabora negli anni con la rivista «Gong» e scritto sui «Cahiers du Cinéma».
Dirige il Filmstudio 70 di Roma e in quegli stessi anni scrive sceneggiature per Dario Argento (Le cinque giornate), Bernardo Bertolucci (L’ultimo imperatore), Gianni Amico (Io con te non ci sto più) e Walerian Borowczyk (Ars Amandi).
Dal 1970 alla morte pubblica opere di critica cinematografica.
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La notte si avvicina di Loredana Lipperini
La notte si avvicina (2020) è un romanzo di Loredana Lipperini edito da Bompiani. Il libro è ambientato nel 2008 eppure sembra parlare a noi e raccontarci ciò che la pandemia ci ha trasferito perché il tema principale è la disaffezione verso il prossimo e la paura di stare a stretto contatto con gli altri.
Oggi il paese è in strada, con le case alle spalle e nessuna fretta di tornarci: anche se essere in gruppo è rischioso, anche se una sola goccia di saliva può condannarli, il silenzio delle loro stanze sembra già la morte. Dunque, isolati in quel gruppo che pure hanno cercato con affanno, si sporgono per guardare se l’edicola con la Madonna dell’Uccelletto è ancora in piedi, ma i soldati sono schierati dietro le transenne e l’edicola è nascosta dalla curva, dove non possono arrivare.
La notte si avvicina nasce nel 2016 a Lampedusa dai ricordi di un custode del cimitero ed edicolante, che racconta a Loredana Lipperini di quando ha iniziato a recuperare i primi corpi di migranti.
La scrittrice infatti parla così del suo romanzo:
È un romanzo che parla di una pandemia e che esce nell’anno di una pandemia può suscitare stupore o il sospetto di volersi agganciare all’attualità. Nei fatti, se si escludono pochissimi interventi successivi, le scene di quarantena e le reazioni degli abitanti sono state tutte scritte negli anni precedenti. Perchè la peste fa parte della nostra storia e, per quanto cambi il mondo, difficilmente mutano le nostre reazioni.
La notte si avvicina: la trama
La notte si avvicina è ambientato a Vallescura uno di quei borghi che sono incastonati all’interno di una natura idilliaca ma che in realtà sono pieni di segreti, invidie e rancori che nutrono gli abitanti di questo luogo. La protagonista è Maria Harlock che si rifugia in questo borgo per sfuggire dalla sua vita e dai suoi turbamenti interiori.
Il suo arrivo innesca una lotta tutta al femminile innescata da alcune abitanti di Vallescura che, frustrate dalle proprie misere esistenze cercano di esercitare una sorta di dispotico potere sugli abitanti e vedendo nei nuovi arrivati dei potenziali nemici.
La notte si avvicina è un romanzo che fonde storie, tradizioni, chiusura mentale e pandemia. In breve è uno spaccato minuzioso di un tempo e di luoghi che esistono e resistono all’ottusità dell’animo umano. Il romanzo porta a riflettere su quanto alcuni atteggiamenti possono sopravvivere e sono radicati nell’essere umano, a prescindere dalle disgrazie del proprio vissuto o da una catastrofe collettiva come quella di una pestilenza o di un’epidemia.
Se invece siete interessati ad un’analisi lucida su ciò che stiamo vivendo vi consigliamo Crisi di civiltà. Pandemia e capitalismo di Noam Chomsky.
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