Editoriale

L’art. 3 della Costituzione chiarisce il concetto di comunità intesa come luogo di sviluppo, crescita e compensazione sociale:
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
La comunità va analizzata, quindi, attraverso i suoi quattro fattori identitari: culturale, economico, sociale e territoriale. Il fattore culturale è un sentimento morale innato e ben radicato all’interno. Il fattore economico, invece, risente della crisi e dell’impotenza dello Stato di fronte ai grandi processi finanziari, creando un processo a catena. La crisi del fattore economico, infatti, si ripercuote sul sociale, provocando una crisi di rappresentanza politica. Unico argine alla crisi di rappresentanza è dato dalla domanda di diversità legata ai luoghi: fattore territoriale. La comunità territoriale è legata all’identificazione nel luogo. Ognuno, pur nella propria diversità di interessi, è legato a uno stesso contesto. Ogni comunità, in sintesi, per essere tale deve avere un’ispirazione territoriale, un bisogno di materializzarsi. Per risolvere la crisi della comunità intesa come luogo occorrono due approcci: uno economico e l’altro compensativo rivolto alle aree più svantaggiate. Un terzo approccio, definito processo innovativo, punta a un comunitarismo metodologico: comunità come luogo di identificazione e trasformazione. Dal confronto, dal conflitto e dai principi costitutivi dello Stato riparte la comunità e si trasforma.
All’interno di una comunità, gli intellettuali pensano e i politici agiscono. Il voto è l’unico vero rito formale della comunità. Il singolo non è solo all’interno di una comunità se la politica riesce ad associare al rigore del comando una funzione di servizio.
La comunità viene studiata dagli intellettuali come programma e fenomeno. La Comunità può essere intesa come fabbrica, comunità non fatta per vivere ma per creare sviluppo. La comunità viene studiata anche come luogo di gruppo: comunità fondata sulla socialità e sul vivere bene. La comunità italiana ha scelto di essere fabbrica. Seguendo il mito dello sviluppo, ha lentamente ceduto il passo al primato del singolo. L’imprenditore privato si è sostituito allo Stato per creare sviluppo. Il processo di privatizzazione è ormai compiuto e irreversibile. Chi crede ancora nell’interventismo statale, resta imbrigliato in logiche politiche. La Comunità deve essere intesa come luogo in cui vivere bene e creare sviluppo. La riscoperta dell’altro porta alla fuga dalla gabbia del soggettivismo e innesca il processo di ricomposizione del tessuto sociale.
Erminio Merola
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