La scrittrice Chiara Moscardelli dopo Volevo essere una gatta morta (2011), il suo romanzo d’esordio, nel 2019 cambia prospettiva, pubblicando per Einaudi Volevo essere una vedova.
L’elemento predominante, in entrambe le pubblicazioni, è la sferzante comicità con cui la scrittrice riesce a descrivere dettami sociali universalmente sottointesi, mostrandoli in modo reale e strappando un sorriso nel lettore.
Chi è la gatta morta per Chiara Moscardelli?
La gatta morta per Chiara Moscardelli è quella donna che nella vita sentimentale riesce a realizzare il proprio obiettivo: quello di accasarsi. Nasce con questo scopo da perseguire nella sua vita, crescendo affina le sue arti seduttive e riesce finalmente a portare a casa lo sventurato di turno.
Usando le stesse parole della scrittrice:
La gatta morta è una micidiale categoria femminile. Non fa battute divertenti, sta in disparte, non esprime opinioni. Ha paura dei thriller, le pesa la borsa, non fa uscire il suo ragazzo con gli amici, non si concede mai al primo appuntamento, neanche al secondo e al terzo e fin da piccola ha un solo scopo: il matrimonio.
A trent’anni Chiara Moscardelli crede che la gatta morta possa essere l’unica chiave d’accesso più congeniale, per poter trovare quell’equilibrio sentimentale formato da due individui che decidono di condividere gioie e dolori.
A quarantasei anni le prospettive della scrittrice cambiano, insieme all’aiuto del suo analista, e la sua unica aspirazione indotta dalla società con cui si rapporta quotidianamente è quella di voler essere una vedova, per evitare di essere guardata, usando le parole dell’autrice, come si guarda una che è in attesa del trapianto di un organo che non arriverà mai.
Ecco uno, tra i tanti episodi, in cui Chiara Moscardelli si è imbattuta e che le hanno messo l’idea di voler essere vedova.
Ero di fronte all’ennesimo ortopedico.
-Sposata?- mi chiese, non appena mi sedetti di fronte a lui, dall’altra parte del tavolo.
-No.
-D’accordo- disse pensieroso continuando a digitare.
-Gravidanze?
…
-No.
-Anni?
-Quarantasei, – sussurrai.
-Come?
-QUARANTASEI.
…
-No, scusi, – mi corressi, tornando a respirare, – non ne ho ancora quarantasei! Mi sembrava strano… siccome li faccio tra pochissimo, quarantesei intendo, mi è venuto spontaneo dirlo, ma non è così!
– Allora scrivo quarantacinque. Però gravidanze niente. Mi conferma?
-No, in effetti no. Cioè sì, glielo confermo.
-Mmm.
-Senta, scusi. Ho per caso sbagliato medico?
-Prego?
-Voglio dire, lei è ginecologo?
-Certo che no. Che glielo fa credere?
…
-Proseguendo con le domande, perché niente gravidanze? Qualche malattia? Impedimento? Sa, il tempo è tiranno eh!- E quest’ultima frase la disse facendomi anche l’occhiolino.
…
Ero vecchia. Ecco cosa stava cercando di dirmi. Come tutti.
Come mai? Come mai avevo quarantacinque anni e non avevo figli?
L’ortopedico non si sarebbe accontentato di una semplice risposta. Era un tipo tosto, si vedeva. -Sono vedova! – gridai.
…
-Questo mi addolora. Così giovane…
…
A quaranticique anni ero vecchia, ma in quanto vedova, invece…
Per la sua età (46 anni), infatti, sembra strano anche all’ortopedico che non sia sposata, divorziata, convivente e che, addirittura, non abbia figli.
L’età di una donna nell’immaginario collettivo deve essere scandita da tappe socialmente accettabili e che ne diano un’immagine rassicurante, dunque, anche l’idea della divorziata, paradossalmente, rientra nell’accettazione sociale di questo status sentimentale perché implica il retropensiero che comunque qualcuno l’abbia scelta, storto morto.
Volevo essere una vedova non ha come focus principale quello di puntare il dito contro una società giudicante, sorridendoci semplicemente sopra. Chiara Moscardelli, nelle pagine del romanzo, pone l’attenzione su altro punto da tenere presente, che è quello più importante: l’accettazione di se stessi.
Mi spiego meglio: la società potrà basarsi anche su dettami morali opinabili ma, se questi dettami pesano a tal punto nella nostra vita da simulare un’immagine più congeniale per gli altri, questo è in primis un problema nostro e di quegli stessi retaggi sociali e culturali che non riusciamo a scrollarci di dosso.
L’esempio più banale potrebbe essere quello di credere nel lieto fine dei rapporti sentimentali, che ci è stato inculcato dalle favole mentre la verità è che il lieto fine non va cercato in una seconda persona ma semplicemente in noi stessi.
Citando le parole di Chiara Moscardelli:
La lezione più importante è proprio questa: siamo noi il nostro lieto fine, il nostro ballo di Cenerentola. Il vissero per sempre felici e contenti esiste, solo non è quello che ci hanno raccontato. Ecco la vera favola.
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