Le iscrizioni al camp sono aperte fino al giorno 14 giugno e sarà strutturato come un vero e proprio Festival della canzone d’autore: masterclass, concerti serali (fruibili anche a chi non è iscritto al camp) e dibattiti contribuiranno a rendere l’intero evento un incubatore culturale di rilevanza nazionale per il circuito cantautoriale.
Si vivranno momenti di musica unici e irripetibili: tanti artisti insieme che, in un’atmosfera di intimità e apertura al pubblico, daranno vita a delle esibizioni inaspettate e sorprendenti. Il tutto all’interno di una cornice di Paestum che regala tramonti di indescrivibile bellezza, immersi nella natura e a pochi passi dal mare e dai famosissimi Templi.
Canzoni al Vento: il programma
Mercoledi 15/06 Pier Cortese
Giovedi 16/06 The Niro
Venerdi 17/06 Alessio Arena
i primi quattro appuntamenti si svolgeranno presso La Locanda del Mare di Paestum
Infine Sabato 18/06 Riccardo Sinigallia con Gnut, Dario Sansone e Francesco di Bella, suonerà presso il Dum Dum Republic di Paestum.
Il Camp nasce dall’esigenza di condividere pensieri intorno alla scrittura di canzoni, “mettere a giro” le esperienze accumulate nel tempo riguardo ai vari aspetti che si affrontano approcciandosi a testo e musica. E’ un laboratorio intensivo che si occuperà di affrontare nei cinque giorni di svolgimento tutto il processo creativo dall’ispirazione alla chiusura di un brano ed la sua esecuzione dal vivo.
Con i giovani cantautori ci confronteremo sulla forma canzone studiando la struttura, la storia, gli elementi che la caratterizzano, la canzone attraverso i generi musicali, tecniche di composizione e approfondimenti su i grandi autori, il valore di una produzione artistica e molto altro. Ci saranno le masterclass e i concerti degli ospiti che ci verranno a trovare. Avremo un confronto diretto sulle canzoni dei partecipanti e condivideremo il palco con loro il 18 giugno al Dum Dum Republic.
Non esiste un metodo per imparare a scrivere testi e musica e proprio per questo diventa importantissimo e altamente formativo il confronto e la condivisione con persone che hanno la stessa passione. Il nostro è un laboratorio, un raduno di appassionati di songwriting. Una situazione in cui mischiare le esperienze significa crescere tutti insieme.
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Fabrizio De André Volume I. Spirito libero e spiritualità
Il primo LP di Fabrizio De André, il nuovo poeta e cantore della scuola genovese, fu realizzato inizialmente nel 1966, quando era ancora legato al contratto con l’etichetta discografica Karim, che qualche anno prima lo aveva scoperto e lo aveva introdotto nel panorama musicale già dal 1961, con la produzione di diversi 45 giri, tra cui La guerra di Piero o La canzone di Marinella, quest’ultimo brano reso in realtà famoso da Mina, che lo aiutò a raggiungere il successo.
Tale obiettivo non interessava granché Faber, appellativo a cui pensò l’amico d’infanzia Paolo Villaggio (dalle matite Faber-Castell), con cui nel 1963 firmò la canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Il cantautore continuava con tranquillità a curare l’amministrazione di tre scuole private a Genova, eredità trasmessagli dal padre Giuseppe, imprenditore e personaggio politico di spicco.
Fabrizio De André considerava la musica “una cosa serissima”, talmente seria da rifiutare le esibizioni dal vivo e un’assidua pubblicità ai lavori discografici, tra cui le interviste, che erano così rare che di lui emergeva davvero poco, se non le sue creazioni sublimi.
Il primo vero LP, dicevamo, uscì con la Karim, sotto il nome di Tutto De André, e includeva dieci brani, nulla di nuovo, dato che avevano già visto la luce in formato da 45 giri fino al 1966, quindi in quell’anno stesso.Faber, nel frattempo, non si era fermato, anzi, considerando la sua diatriba con la suddetta etichetta, che era stata accusata dal musicista di mancata corrispondenza dei diritti d’autore ricavati dalle vendite, aveva già cominciato a lavorare a nuove canzoni, ammaliato dalla Bluebell Records, che gli aveva proposto un nuovo contratto.
Peccato però che quello vecchio non fosse ancora terminato, e tale circostanza aumentò le tensioni tra le due parti, e indusse una nuova causa, questa volta da parte della Karim, che accusò il cantautore di non aver rispettato i termini fino alla fine dell’accordo.
Molto probabilmente già abituato a tali circostanze scomode,senza dubbio aiutato dalla sua notevole posizione economica, in quanto c’era una terza denuncia in corso, e riguardava proprio il brano scritto a quattro mani con Paolo Villaggio, che il Tribunale Penale di Milano aveva dichiarato offensivo per la morale, e che addirittura si raccontava che contenesse fini pornografici.
Volume I (1967), il primo vero album di inediti di Fabrizio De André, vide la luce nel 1967 e fu anticipato dall’uscita dei singoli Preghiera in gennaio e Si chiamava Gesù, ambedue incluse in un formato da 45 giri.
L’unica canzone inedita, l’ultima della tracklist, fu proprio Carlo Martello, che aveva scatenato le accuse da parte delle autorità giuridiche, e fu inclusa nella scaletta di proposito, in accordo con la nuova etichetta discografica, la Bluebell Records.
La copertina, all’inizio, era di color marrone, ed aveva il volto del cantautore assorto, di lato, quasi come se non si vedesse. La registrazione, inoltre era in mono. La seconda e definitiva copertina, infine, con l’inciso in stereo, era bianca, con gli angoli smussati e un bel primo piano di Fabrizio De André, un po’ spettinato ma fiero. Anche la tracklist, con gli anni, cambia. La canzone Caro amore viene sostituita nel 1970 da La stagione del tuo amore, questo perché la prima citata, pur avendo chiare referenze al Concerto di Rodrigo per Aranjurez, non fu accettata dagli intestatari dei diritti.
La struttura del disco è di per sé molto semplice all’ascolto: in primo piano c’è una voce calda e baritonale, accompagnata da una chitarra classica, e ci sono alcune rare incursioni di altri strumenti. La sezione ritmica spesso è assente e non si presenta che con la destrezza sulla sei corde di Fabrizio De André, che paradossalmente si definiva come uno “alquanto scarso”, e con il supporto Gian Piero Reverberi, arrangiatore già nella Karim, e fedele collaboratore, arricchì le parti che figuravano strutturalmente più complicate.
Volume I e la filosofia degli emarginati
Luigi Tenco, volto iconico della scuola genovese, si suicidò a Sanremo nel gennaio del 1967, in seguito a un suo personale disaccordo con la giuria del festival, che non aveva apprezzato il suo brano in gara.
Fabrizio De André, caro amico ed estimatore di Luigi Tenco (si diceva che per avere successo con le ragazze si spacciasse proprio per il cantante di “Ciao amore, ciao”), apre il suo primo disco con una canzone che ricorda i drammatici momenti di Sanremo, Preghiera in gennaio, e tale intenso momento sarà subito coniato, e ricordato ai posteri, come il ricordo e l’omaggio più struggenti e giusti che si sarebbero potuti dedicare.
Il brano, oltre ad esprimere una reale ottica del suicidio, questo atto molto spesso accusato di pregiudizi e di critiche nonostante l’azione drammatica stessa, racconta, con la poesia intensa di Faber, la più giusta visione, che funge anche da filosofia decadente di carattere rimbaudiano.
Il significato dell’estremo atto assume un’espressione talmente notevole, da risultare come la tappa finale di una vita che ha espresso troppo spesso elevati disgusti sociali, che vittima di un’incomprensione a tutto spiano, figlia d’ignoranze e cattiverie, si oppone alle barriere di attuazioni ingiuste secondo la propria ottica, e soccombe al dono della vita, quest’ultima vista però più come un ostacolo che come un percorso:
Signori benpensanti
spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza
preferirono la morteLa seconda traccia, Marcia Nuziale, neanche si discosta dalle passioni del giovane cantautore. Questa, difatti, non è altro che il rifacimento di “La marche nuptiale” di Georges Brassens, chanteur francese da cui Faber prende e prenderà sempre spunto. Qui viene descritta, quasi in maniera distopica, la cerimonia nuziale di chi canta, che racconta di essere stato testimone di quei momenti memorabili, seppur essendo il figlio della coppia descritta in questione, che addirittura suona l’armonica, per accompagnarne i lieti momenti, che però purtroppo vengono disturbarti da un vento che porta con sè una tempesta imminente, che quasi non vuol far più celebrare nulla. La scena, a dispetto delle intemperie, che rischiano di far saltare tutto, descrive un amore fatto di gesti semplici come non se ne vedevano, “durato tanti anni da chiamarlo ormai d’argento”. Un amore che coniato innanzitutto da un affetto, si descrive come un’identità sincera a tutto spiano, a differenza di un qualsiasi matrimonio della borghesia, che viene celebrato per inerzia, guidato solo da interessi familiari. Qui è di casa la sincerità di una natura casta:
Matrimoni per amore, matrimoni per forza
Ne ho visti di ogni tipo, di gente d’ogni sorta
Di poveri straccioni e di grandi signori
Di pretesi notai, di falsi professori
Ma pure se vivrò fino alla fine del tempo
Io sempre serberò il ricordo contento
Delle povere nozze di mio padre e mia madre
Decisi a regolare il loro amore sull’altareSpiritual, la terza canzone, che presenta sprazzi di una combriccola canora di voci briose che si alternano al cantato principale, con una base inaspettata di un organo da chiesa che sostituisce la chitarra, rappresenta, dopo il primo brano in scaletta, la prima testimonianza di una spiritualità, oltre alla volontà di credere o meno alla religione cristiana, che si enuncia nelle parole che inducono a pensare ad una vera e propria preghiera, rivolta al “Dio del Cielo”; che quest’ultimo possa regalare una parentesi, seppur spicciola, di felicità, a chi ne sta cantando le lodi, in funzione di un contraccambio di un interesse del tutto casto ma essenziale:
le chiavi del cielo non ti voglio rubare
ma un attimo di gioia me lo puoi regalareSi entra poi nel vivo della devozione, seppur dedicata più ad un’entità fatta uomo che ad una santità ineccepibile. Qui chi canta tesse le lodi di un uomo che ha coniato la storia con le sue gesta.
Si chiamava Gesù è la narrazione che va al di fuori di ogni Vangelo, che sfida le agiografie, che smorza le preghiere, come quella della canzone antecedente, e mette a nudo un essere umano debole, che è stato assediato dal male del genere umano, nonostante egli abbia portato in Terra la gioia di saper trasmettere una bontà che molto raramente sarà emulata in seguito. Ci spiega Mauro Pesce, biblista, nella lunga intervista di Corrado Augias per il libro Inchiesta su Gesù(2016 – Mondadori), che “Gesù è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega Dio se si pensa di essere Dio”. Difatti ci canta Fabrizio De André:Non intendo cantar la gloria
Né invocar la grazia e il perdono
Di chi penso non fu altri che un uomo
Come Dio passato alla storia
Ma inumano è pur sempre l’amore
Di chi rantola senza rancore
Perdonando con l’ultima voce
Chi lo uccide fra le braccia di una croceÈ la volta di La canzone di Barbara.
Dal sacro, dunque, al profano. Il cantautore e poeta genovese qui ci porta nel tempio delle avventure amorose proibite, dell’incesto e addirittura dell’adulterio, e non sarà la prima volta nel lungo repertorio quasi trentennale che ne seguirà.
Barbara è una donna libera, che non cede all’amor comodo, e preferisce abbandonarsi ad avventure di un attimo, e forse già che celano un addio, dopo un atto consumato per sfuggire alla noia quotidiana, sia di uomini che inseguono un’avventura, oltre l’obbligata scia matrimoniale, sia di favorevoli concubini, che invece non trovano che un ostacolo, nonostante un lieto benvenuto:Lei sa che ogni letto di sposa
È fatto di ortiche e mimosa
Per questo ad un’altra età, Barbara
L’amore vero rimanderà, BarbaraVia del Campo, nelle note di Cesare G. Romana, nell’ultima e definitiva versione del primo album, viene descritta così:
Così la graziosa Via del Campo, la bambina ai cui piedi nascono i fiori, ma che vende a tutti la stessa rosa: la puttana che non potrà mai offrir altro che un paradiso provvisorio e, tutto sommato, inutile incantesimo di un quarto d’ora.
Di sicuro anche qui ne nasce una preghiera, in quanto la divinità prende le sembianze una “graziosa”, una fanciulla che vende le proprie bontà a chi la sceglierà per godere di quell’attimo in cui dimentica la bramosia del denaro, dei diamanti da cui “non nasce niente”, mentre dal “letame nascono i fior”
E ti sembra di andar lontano
Lei ti guarda con un sorriso
Non credevi che il paradiso
Fosse solo lì al primo pianoCuriosità: Via del Campo prende palesemente spunto da La mia amorosa la va alla fonte di Enzo Jannacci.
La stagione del tuo amore è una delle parentesi più dolci di questo disco incantato.
Si narra la sovente vicenda di un amore che tarda ad arrivare, e la rassicurazione del suo autore è designata “nella luce di un’ora”, che può nascondere in essa sia una gioia che un dolore, e quando però quest’ultimo viene sopraffatto da un momento di goduria e libertà sensoriale, allora l’attesa ne sarà a pieno ricompensata:Passa il tempo sopra il tempo
Ma non devi aver paura
Sembra correre come il vento
Però il tempo non ha premura
Piangi e ridi come allora
Ridi e piangi e ridi ancora
Ogni gioia ogni dolore
Poi ritrovarli nella luce di un’oraBocca di rosa, è senza alcun dubbio l’apoteosi tematico dell’album.
L’amore innanzitutto, e soprattutto lì dove l’amore è visto meglio nell’attimo di un momento, anziché nella penosa lungimiranza di una prospettiva a lungo termine, dove i fuochi iniziali vanno a perdersi nella quotidianità dei difetti e delle complicanze reciproche. La protagonista della storia/canzone è una donna che, come Barbara, si lega “per passione”, e fa all’amore con chi semplicemente lo cerca, e non importa se già impegnato, perché ella ha come un compito: regalar sogni, seppur di un attimo e lasciar un ricordo inossidabile. Solo che l’ira delle donne del paese (Sant’Ilario) riesce a scacciar via la donna che ha sottratto, finanche con l’immaginazione, la libertà dei propri consorti:Alla stazione c’erano tutti
Con gli occhi rossi e il cappello in mano
A salutare chi per un poco
Senza pretese, senza pretese
A salutare chi per un poco
Portò l’amore nel paese
C’era un cartello giallo
Con una scritta nera
Diceva addio bocca di rosa
Con te se ne parte la primaveraLa morte, penultima canzone, che conserva un tema che sarà – ed era già stato ricorrente- nella poesia di Fabrizio De André, è una sorta di consolazione per l’animo fragile, e allo stesso tempo una nemica brutale per l’uomo che attinge le proprie gesta al successo tanto agognato. Eppure questo estremo saluto al mondo terreno comporta un’equità che dapprima non si era definita. Una A Livella di Totò che viene riproposta in una forma canora che racchiude la stessa giustizia emblematica, che mette sullo stesso piano l’essere umano forte e quello debole, che nonostante l’estremo trapasso, accusano il nuovo misterioso viaggio in maniera differente, così come hanno vissuto le loro vite.
L’unica differenza sta nel chi li vede morire:
Straccioni che senza vergogna
Portaste il cilicio o la gogna
Partirvene non fu fatica
Perché la morte vi fu amica
Guerriero che in punta di lancia
(…)
Di fronte all’estrema nemica
Non vale coraggio o fatica
Non serve colpirla nel cuore
Perché la morte mai non muoreCarlo Martello, infine (vero titolo era Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers), è l’unico brano già edito, e con una musica che sa di Medioevo, battaglie e vittorie, narra la vicenda di Re Carlo che ritorna vincitore dopo aver sconfitto gli arabi, fermandone l’avanzata proprio in Francia e salvando il mondo occidentale. Il re, molto fiero del suo ritorno vittorioso, non ha di certo dimenticato le voglie smaniose di un uomo che è fatto innanzitutto di carne, e che quindi non dimentica le sue debolezze, come tutti. Adopera dunque, o comunque crede di farlo, le proprie gesta eroiche, per abbandonarsi con più facilità tra le braccia di una graziosa fanciulla, che nel frattempo fa il bagno in una fontana. Quest’ultima però non cede all’eroica vittoria del suo sire, e alla fine, quando l’atto viene consumato, ne presenta la parcella.
Re Carlo, dunque, non è altro che uno di noi, che paga con moneta la sua lussuria, che ha ottenebrato tutta la grazia della sua vittoria.
Con Volume I, prezioso documento musicale d’inestimabile morale poetica di spiriti liberi e spiritualismi, Fabrizio De André spianò per il futuro la sua elegante e anarchica dialettica incisa su note, che sottolineò per sempre le costanti e sempre più crescenti tematiche di un uomo più privato di beni preziosi, nonostante il rango sociale, a cui viene meno la bramosia, nell’esposizione delle proprie debolezze come fattore di perdita, o di morte.
Carmine Maffei
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Antonio Giugliano “l’enologo millennial” punta sui volcanic wine
Austero e severo, lo sterminator Vesevo impera su Napoli con imponenza. Il Vesuvio affascina, ma incute anche paura. In realtà, la stessa lava – che ha seppellito Pompei – ha fatto la fortuna del territorio vesuviano, che impera su uno dei terreni più fertili al mondo.
Le eruzioni avvenute nel corso dei secoli hanno, infatti, dato vita a un substrato generoso di minerali prezioso per l’agricoltura. Non a caso, lungo le pendici del vulcano campano, si trovano eccellenze uniche, come il pomodoro del piennolo, l’albicocca e, soprattutto, vigneti di vitigni ancestrali, che caratterizzano un territorio tanto impervio quanto materno.
L’unica pecca? La mancanza di sostanza organica. Carenza, cui il giovane enologo partenopeo, Antonio Giugliano, deus ex machina insieme a Marika Vallefuoco di Cantina Maranto, hanno cercato di porre rimedio ricorrendo per la loro cantina a una strategia naturale: l’utilizzo di lombrichi che ad ogni latitudine creano un prezioso humus, ricco di sostanze organiche e acidi umici, in grado di favorire l’incremento strutturale del suolo e l’assimilazione di macroelementi essenziali, come l’azoto.
Per riuscire nell’intento, Antonio Giugliano ha da poco avviato l’allevamento domestico di una lombricaia. D’altronde l’humus, concime organico particolarmente usato in agricoltura biologica, è ricco di enzimi ed auxine: sostanze provenienti dall’intestino dei lombrichi, che stimolano la crescita naturale delle piante. Una bella intuizione, quella dei due giovani imprenditori: utilizzare tecnologie moderne, seppur disposti ad osservare retaggi antichi, nel rispetto della tradizione, della natura e della sostenibilità.Giovani fortemente legati al territorio, sempre più “imprenditori e multitasking”, che hanno scelto la campagna proponendo una nuova visione della figura dell’agricoltore.
Terreni sabbiosi, con ceneri molto fini e particolarmente permeabili, rappresentano le condizioni ideali per ottenere uve di qualità e le peculiarità del suolo influenzano inevitabilmente il carattere del vino, dando vita ai cosiddetti: volcanic wine, ricchi di fosforo, magnesio e potassio, elementi che donano ai vini complessità, sapidità, mineralità ed acidità. Inoltre, le escursioni termiche di questi terreni ne favoriscono anche le componenti aromatiche. Dunque, i volcanic wine risultano freschi e di ottima beva, dal gusto ricco ed equilibrato. In più, le caratteristiche sabbiose del suolo, dovute a ceneri e lapilli, facilitano la penetrazione delle radici delle piante in profondità, rendendo impossibile la sopravvivenza di parassiti dannosi, come la fillossera.
Un substrato ideale per accogliere vita ma che, come dicevamo, ha un limite. I terreni del Vesuvio, infatti, all’insegna soprattutto di cenere e lapilli, hanno una natura sabbiosa, che regala al vino caratteristiche organolettiche e sensazioni uniche, come profumo e mineralità, ma sono poveri di sostanza organica ed estremamente permeabili all’acqua.
Caratteristica, quest’ultima, che determina l’assenza di un macroelemento essenziale come l’azoto, di facile lisciviazione, specialmente nei suoli sabbiosi.Un “ostacolo”, che Antonio Giugliano ha bypassato, grazie alla lombricaia: si deve anche a questa innovativa intuizione la nascita del primo vino di Cantina Maranto: il Piedirosso “Millennial”, il rosso dedicato alla cosiddetta “generazione Y”.
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Stefano Di Marzo risponde con una lettera aperta sulla questione Villa Raiano e Decò
Stefano Di Marzo, presidente del Consorzio Tutela Vini D’Irpinia invia una lettera aperta a Multicedi s.r.l. per dire la sua in merito a quanto accaduto tra Villa Raiano e Decò.
La posizione presa da Stefano Di Marzo
La lettera di Stefano Di Marzo afferma quanto segue:
Nei giorni scorsi si è sollevato un acceso dibattito sui media, in seguito alla promozione da Voi effettuata dei vini Fiano di Avellino DOCG 2019 e greco di Tufo DOCG 2019 recanti la label Gusto Decò, che esponeva a scaffale i suddetti vini al prezzo di euro 1, 19 la bottiglia.
L’intera comunità dei produttori irpini, nonché giornalisti e osservatori hanno unanimamente assunto una posizione fortemente critica rispetto a un’offerta che, attesi gli elevati costi di produzione di vini di pregio riconosciuto, evidentemente svilisce l’immagine di quei prodotti e mortifica l’impegno di tanti operatori della filiera.
Il Consorzio di Tutela Vini D’Irpinia, che mi onoro di rappresentare, ai sensi dell’art 41, commi 1c e 4, della legge 238/2016 ha il compito, com’è noto, di svolgere funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura generale degli interessi delle DOCG irpine.
Pur non intendendo entrare nel merito delle specifiche scelte commerciali della clientela, è evidente che un livello di prezzo così depresso, così largamente incapiente rispetto ai costi di produzione di un vino a DOCG, è suscettibile di procurare un dann0 d’immagine a un’intera comunità di svariate centinaia di produttori irpini che sull’economia di questi vini fondano il sostentamento delle proprie aziende e famiglie.
È altresì noto che la filiera della vite e del vino è uno dei comparti trainanti l’intera economia della provincia di Avellino.
Stefano Di Marzo, continua nella lettera aperta a sottolineare il valore e l’importanza legale che sanciscono le leggi su queste eccellenze. I prodotti in questione anche in fase di commercializzazione devono essere gestiti con senso di responsabilità, per poter salvaguardare il valore delle denominazioni in questione e di tutte le altre.
Il presidente del Consorzio di Tutela Vini D’Irpinia ribadisce:
Un’attività di promozione come quella da Voi posta in essere può riverberarsi negativamente sul lavoro di tanti operatori anche per il futuro, a causa del danno d’immagine che si genera presso il consumatore per effetto di un non idoneo posizionamento di prezzo.
Confidiamo che possiate condividere tale linea di condotta, nell’interessa della comunità agroalimentare regionale, adottando idonea comunicazione nei confronti della vostra clientela affinché l’infortunio in discorso resti un episodio infelice e non produca ulteriori danni.
Non ci resta che attendere la risposta e la posizione della Decò e della Multicedi.
5 comments on A Paestum “Canzoni al vento” il primo campus estivo per cantautori
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