Dopo il grande successo di Noa, un’altra artista internazionale salirà sul palcoscenico del Trianon Viviani: Maria de Medeiros, l’attrice e cantante portoghese – nota in particolare per la partecipazione al cast stellare di Pulp fiction di Quentin Tarantino, premiata con la coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia –, al suo debutto alla regia in Italia.
Venerdì 8 e sabato 9 aprile, alle 21, e domenica 10 aprile, alle 18, Maria de Medeiros e Mauro Gioia daranno vita alla prima assoluta di “Ossessione napoletana”, uno spettacolo musicale, scritto dagli stessi due artisti.
Ossessione napoletana, spettacolo musicale di Mauro Gioia e Maria de Medeiros in prima assoluta – venerdì 8 e sabato 9 aprile, ore 21; domenica 10 aprile, ore 18:00.
Ossessione napoletana: trama
Che ci fa una star internazionale nello studio polveroso di una televisione privata napoletana?
Lei è una diva del cinema, lui il sostituto di uno storico presentatore locale.
Il loro incontro, per un’intervista quasi impossibile nella trasmissione cult Ossessione Napoletana, segna il ritorno dell’attrice a Napoli, città nella quale ha lasciato trascorsi e passioni.
Lei è l’attrice, cantante e regista Maria de Medeiros; lui il cantante e attore Mauro Gioia. Insieme danno vita a uno spettacolo spiazzante, nel quale i ruoli vengono sovvertiti e dove persino il pianista, Giuseppe Burgarella, ha molto da dire.
Tra domande irriverenti, che mettono a confronto il maschile e il femminile, lo spettacolo si dipana tra testi di Susan Sontag e James Joyce, e canzoni, con classici napoletane e brani di Chico Buarque, Clementino e della stessa de Medeiros.
In campo musicale ha realizzato tre album come cantante.
Lo spettacolo è prodotto dal Trianon Viviani in accordo con Hetzel Productions Paris. Il visual è di Giovanni Ambrosio.
Ossessione napoletana segna il debutto italiano di Maria de Medeiros alla regia e il ritorno dell’attrice sulle scene nazionali.
L’attrice e regista portoghese – tra teatro e cinema – e cantante, è stata premiata come miglior attrice con la coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia per il film Três irmãos di Teresa Villaverde (1994). Ha interpretato, tra l’altro, la scrittrice Anaïs Nin nel biopic Henry & June di Philip Kaufman (1990), accanto a Uma Thurman, il ruolo di Fabienne, la fidanzata di Butch Coolidge (interpretato da Bruce Willis), in Pulp fiction di Quentin Tarantino (1994) e ha dato vita al personaggio di Eleonora Fonseca Pimentel nel film di Antonietta De Lillo Il resto di niente (2003).
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Fabrizio De André: le origini e la scoperta dell’uomo ancor prima dell’artista
Uno dei più grandi filosofi e sociologi mai esistiti, Friedrich Engels, in una lettera al suo amico Karl Marx, espresse il suo disagio nell’ammettere che essendo lui un benestante, figlio di un grande imprenditore tessile tedesco, non riuscisse a cimentarsi perfettamente nel ruolo di chi avrebbe preso le difese della classe operaia o comunque meno abbiente.
Intanto fu grazie a lui e alle sue risorse, se alcune delle opere che conosciamo, come Il Manifesto del Partito Comunista o Il Capitale, riuscirono ad ottenere una pubblicazione, applicando cambiamenti radicali al mondo economico.
Non deve disturbare, dunque, la certezza che spesso, se facciamo un passo indietro nel tempo, è toccato alla borghesia applicare cambiamenti con scopo benefico per la società, sia nel campo dello sviluppo sociale, economico, nella filosofia e infine nell’arte. Questo perché chi aveva più facile accesso allo studio, quando quest’ultimo non era ancora un diritto per tutti, aveva oltremodo la possibilità di ottenere un ruolo importante nelle istituzioni, e tra i più fortunati c’erano animi più sensibili che avrebbero apportato evoluzioni a favore di tutta la società, contemporanea e futura.
Il giovane Fabrizio De André, nato a Genova nel 1940, era anch’egli figlio di una famiglia benestante: il padre Giuseppe era un imprenditore molto facoltoso; fu vicesindaco e presidente dell’Ente Fiera; anche la madre, Luisa, aveva origini nobili.
Fabrizio De André ebbe modo quindi di frequentare le migliori scuole, e nonostante i suoi risultati non fossero eccellenti, perché si definiva pigro, soprattutto nello studio, amava invece soltanto sostare tra i libri di suo gradimento, leggendo i classici della letteratura e della poesia. Di quest’ultimo campo amava François Villon, Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud e Bertolt Brecht.
Era un appassionato degli chansonnier francesi, tra cui Georges Brassens, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour e Jacques Brel, e aveva un predilezione per le ballate medievali, a cui spesso si divertiva ad applicare della musica di sua invenzione, creandone delle melodie con quei versi antichi.
Era innanzitutto un ottimo chitarrista, anche se lui si era sempre considerato uno “alquanto scarso”, e si avvicinò giovanissimo al jazz, disciplina che abbandonò presto perché credendola troppo scolastica, preferendo ad esso qualcosa di più spontaneo, più libero.
Fu l’etichetta discografica Karim a scovarlo tra gli ambienti musicali già fiorenti dell’allora Genova dei cantautori più eccellenti, che facevano da scuola al panorama italiano, come Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Gino Paoli, Sergio Endrigo e Luigi Tenco, quest’ultimo grande amico di Fabrizio De André.
Quest’ultimo però si discosta come originalità dagli altri, e come ci dice Immanuel Kant:
La minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro.
Sembra chiaro che il giovane cantautore voglia fortemente creare qualcosa che non si sposi né col contesto benestante da cui proviene, né con il panorama culturale-musicale a cui per diritto appartiene. Fin da subito Fabrizio De André, che già si è sposato giovanissimo ed ha un figlio, il piccolo Cristiano, è amministratore di tre istituti privati e studia giurisprudenza, ci tiene a separare la passione che ha per la musica –che definisce soprattutto un hobby-, dalle più importanti mansioni da uomo responsabile e padre di famiglia. Non cerca il successo e rifugge dalle interviste, perché egli la musica la definisce “una cosa serissima” e oltretutto non si concede facilmente alle masse, è schivo e taciturno, non timido ma risoluto nelle sue idee di spontanea reclusione tra le mura domestiche, e soprattutto si rifiuta nel suonare dal vivo, perché sostiene:
Io appartengo solo a me stesso.
A questa conclusione i Beatles ci sarebbero arrivati nel 1966, un anno prima che uscisse il primo LP di Fabrizio De André, mentre quest’ultimo prenderà la decisione di affrontare il palco soltanto nella seconda metà degli anni Settanta.
Tra il 1960 e il 1961, con la Karim, escono i primi 45 giri, che sottopongono gli ascoltatori a qualcosa di nobile, d’altri tempi quasi, e che sposa le tematiche dell’amato Georges Brassens, da cui spesso si cimenta nelle traduzioni dei testi o nei rifacimenti stessi con riarrangiamenti, che parlano d’amore (La canzone dell’amore perduto) ma anche di morte (La ballata del Michè), che abbracciano tematiche sociali drammatiche come la guerra (La guerra di Piero), che sottraggono le donne all’ingiusto giudizio di una società ancora troppo patriarcale (La canzone di Marinella).
Fu proprio nel 1964, con La canzone di Marinella, affidata alla voce di Mina, che Fabrizio De Andrè ottenne il successo di cui però avrebbe fatto a meno, ma il pubblico approvò, anche grazie al supporto di una cantante straordinaria, e i dischi piovvero ostinatamente, ancor prima di oltrepassare il traguardo di un primo vero long playing, che a dir la verità arrivò presto, ma fu dapprima una raccolta di tutti i singoli che la Karim mise insieme per dar vita al primo disco, Tutto Fabrizio De André.
La svolta però si associa anche con un evento davvero scomodo: la canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers fu messa sotto sequestro dal Procuratore della Repubblica di Milano, considerandola oscena e dai toni pornografici. Questa traccia, scritta a due mani con l’amico Paolo Villaggio, parla dell’avventura del re Carlo, condottiero che nelle località di Poitiers fermò l’avanzata degli arabi, nel 732, che avrebbero messo in pericolo il mondo cristiano, oltre tutta la civiltà occidentale. Carlo Martello, nel testo, più che combattente, viene presentato anzitutto come un uomo, con tutte le sue debolezze, prima fra tutte quelle che della carne, e tornando da vincitore, credendo di ottenere tutto e subito per le sue voglie ardenti, resta poi spiazzato quando una concubina gli presenta la parcella alla fine dell’atto sessuale.
Dichiarò Fabrizio De André al Messaggero, nel dicembre del 1965:
Noi siamo perseguitati da personaggi come lo sterminatore degli arabi, tanto che finiamo per dimenticarci che sono uomini. Ebbene, io ho voluto ricordare che Carlo Martello era un uomo con il suo meraviglioso coraggio, ma anche con il peso della sua carne vogliosa. Che cosa c’è di male in tutto ciò? Forse perché nella canzone c’è la parola puttana per giustificare un sequestro?
La canzone sopracitata sarà, per volontà stessa dell’artista in accordo coi discografici , l’unica edita in una raccolta di canzoni inedite che faranno parte del primo disco, Volume 1, pubblicato dall’etichetta Bluebell nel 1967. La causa, i cui imputati sono lo stesso cantautore e i due titolari della Karim (ma non il coautore Paolo Villaggio), si concluderà nel luglio del 1968, quando si pronuncerà la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.
Nello stesso tempo la separazione con la Karim non avviene nel migliore dei modi, dato che il cantautore viene denunciato dai suoi titolari perché Fabrizio De André si sarebbe accordato con una nuova etichetta discografica e con essa avrebbe iniziato le sessioni di registrazione per il primo LP ufficiale di inediti. La separazione avviene però quando ci sono dei dubbi del musicista sulla corrispondenza esatta dei diritti d’autore su tutti i dischi venduti.
La definizione che si possa dare al primo periodo di Fabrizio De André è quella di considerarsi, soprattutto, un uomo ancor prima di auto dichiararsi artista, affermazione che gli fu scomoda.
La svolta che avvenne, neanche molto presto, col grande pubblico fu una causale del tutto giustificata, in quanto egli si presentò con un’originalità che in Italia, allora come oggi, non aveva eguali, con la sua ostentata cultura, con le passioni per le ballate d’altri tempi e gli chansonnier francesi, con la dichiarazione di un mondo ora ironico, ora ingiusto e ipocrita, accompagnato da una musica nobile, seppur leggera, con dei testi poetici che ricalcano la sua smisurata devozione agli autori che ha amato e che lo hanno inebriato, aiutandolo nella giusta direzione che si sarebbe presto definita, con la quale sarebbe stato riconosciuto come un personaggio storico che non avrebbe mai perso di vista le sue smaniose volontà di sentirsi innanzitutto un essere pensante filo anarchico, lontano da ogni direzione politica, e solo infine, come un cantautore.
I tempi difficili che stiamo vivendo ci insegneranno a definirci dapprima come esseri messi a nudo, con le nostre debolezze (come Carlo Martello) e le nostre giustificate incapacità, messe di fronte a emergenze di una portata epocale impressionante. L’importanza di considerarci dapprima nella pienezza delle nostre risorse umane (come in Marcia Nuziale) ci aiuterà nella scalata complicata per la riconquista di una più miserevole dignità, ancor prima di considerarsi importanti, indistinguibili o addirittura inarrivabili. In questo momento, l’ascolto di un artista che ha cantato l’uomo, anzitutto perdente, può essere di un’importanza fondamentale per la riuscita di una società che rinasca migliore di prima, e si faccia forza con la rivalutazione di sentimenti più importanti.
Carmine Maffei
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I Terconauti su Rai 2 in occasione della giornata mondiale dell’autismo
Il 2 aprile è la Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo e per l’occasione i Terconauti parteciperanno a una puntata a tema di “O Anche No”, il programma di inclusione sociale e disabilità realizzato con la collaborazione di Rai per il Sociale e Rai Pubblica Utilità. L’appuntamento è su Rai 2, venerdì 1° aprile alle 23.55 e in replica domenica 3 aprile alle 9.10.
I fratelli Damiano e Margherita Tercon insieme a Philipp Carboni saranno presenti con dei video ironici (girati in collaborazione con LogoAgency), che affrontano i temi legati all’autismo con il loro consueto stile, delicato ed ironico. Tutta la famiglia Tercon è stata coinvolta nei video: c’è infatti la madre Simonetta Lolli, ma anche il padre Mauro in una comparsata.
I video verranno poi condivisi sui loro social, sempre più seguiti.
D’altra parte i Terconauti non si fermano mai e continuano ad esplorare varie forme d’arte per portare il loro messaggio di positività.
Nel 2020, per esempio, i fratelli Damiano e Margherita Tercon hanno pubblicato (per Mondadori) il libro “Mia sorella mi rompe le balle – Una storia di autismo normale”, diventato un best-seller.
Invece nel 2021 hanno esordito nel mondo della musica con il singolo “Ballo Pessimo”: la canzone (un sequel in musica dello sketch “Mia sorella mi rompe le balle”, che vede Damiano passare dalla lirica alla dance) è un manifesto a favore dell’inclusione sociale, che cattura dal primo ascolto.
I Terconauti: biografia
I fratelli Damiano e Margherita Tercon, insieme a Philipp Carboni, si muovono tra video web, tv, teatro, fumetti e libri, con la loro frizzante ironia e un nuovo modo di fare comicità. La loro sfida è dimostrare che, ciò che per molti potrebbe essere visto come un limite, è in realtà una strada in grado di aprire a infinite possibilità.
Non è un caso se le loro esibizioni a “Italia’s Got Talent” e “Tu Si Que Vales” hanno lasciato il segno, togliendo all’autismo quel velo di pietismo che di solito ricopre l’argomento.
E con lo stesso mood hanno portato avanti diverse collaborazioni, tra cui spicca quella con i The Show con cui hanno realizzato, in giro per Milano, delle divertenti candid camera con cui sono riusciti far capire, con un sorriso, che anche chi è autistico è una persona come tutte le altre.
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4 metà: il film che confuta l’esistenza dell’anima gemella
Da sempre ci si chiede se esiste davvero l’anima gemella. C’è chi è fermamente convinto che nel mondo esiste la metà della mela perfettamente aderente ad un’altra, chi ci spera e chi cinicamente sorride all’idea di questa ipotesi azzardata e romantica. A prescindere dal filone in cui si crede, sono in molti, se non tutti, ad essere attanagliati dall’idea e dalla paura di scegliere o innamorarsi di qualcuno che poi si rivelerà sbagliato.
4 metà (2022) di Alessio Maria Federici è un film che ci mostra proprio questo, confutando l’idea e l’esistenza dell’anima gemella.
Il lungometraggio entra nelle dinamiche sentimentali e veloci del nostro tempo che, spesso, non lasciano lo spazio per la riflessione, a causa di eventi che possono capovolgere completamente la nostra percezione dell’altro o per altre motivazioni dettate dalla casualità, che si mescola all’imprevedibilità degli eventi.
Il film mostra quante porte scorrevoli possono esistere in una combinazione composta da 4 persone (due donne e due uomini) e, a prescindere dalla scelta che ciascun protagonista effettuerà, non necessariamente si nasconde una delusione o una relazione fallimentare.
In 4 metà fa capolino il concetto di amore e le varie sfaccettature che ha: esiste quello che nasce dalla diversità che arricchisce, quello che affascina persone simili, quello che viene alimentato dalla sfida e quello che si costruisce sulla fiducia e sul bene che, col tempo, diventa affezione.
Se da sempre ci si interroga sull’anima gemella e sull’amore significa che una sola risposta assoluta non esiste: nel mondo esistono diverse combinazioni ma nessuna è sbagliata o è migliore di altre.
4 metà: la trama
Siamo a Roma, una coppia appena sposata decide di fare un esperimento, facendo incontrare quattro amici (due donne e due uomini) single. I prescelti sono molto diversi tra loro ma i novelli sposi nutrono la curiosità e la speranza che possano nascere delle nuove coppie.
Chiara (Ilaria Pastorelli) è un medico che ha una visione dell’amore romantica e non più mordi e fuggi. Dopo varie esperienze collezionate nella vita, cerca un uomo che sia capace di dare amore, vicinanza e calore umano. In breve, cerca la storia della vita perché sente che la sua non è completamente piena, le manca l’amore e una famiglia.
Giulia (Matilde Gioli) lavora in ambito finanziario, è una donna ambiziosa e proiettata sul suo lavoro e sulla sua carriera. Non è in cerca dell’amore, non è una sua priorità. Le sue storie sono brevi e senza preamboli inutili perché non ha voglia o la pazienza di essere corteggiata quando la sua finalità è la stessa dell’uomo di turno.
Matteo (Matteo Martani) lavora in una casa editrice, è un uomo ironico, colto, di sani principi e sempre con la battuta pronta. Non colleziona donne infatti ha difficoltà nell’approccio più semplice e in alcune situazioni si sente impacciato. Non sembra cercare l’amore o l’anima gemella ma non sembra neanche dispiacergli l’idea contraria.
Dario (Giuseppe Maggio) è un avvocato concentrato sui propri affari e su stesso. Le donne sono un passatempo, che durano il tempo della conquista. Non cerca l’amore, non gli interessa o semplicemente non ha ancora trovato la persona giusta.
I quattro single si incontrano e iniziano a conoscersi. Da qui Alessio Maria Federici inizia a creare le diverse coppie che possono formarsi: Chiara con Matteo, Giulia con Dario, Chiara con Dario e Giulia con Matteo.
Le prime due coppie (Chiara e Matteo, Giulia e Dario) rappresentano l’incontro che segue il filone dell’attrazione per somiglianza, rappresentato con i suoi pro e i suoi contro. Chiara e Matteo sono simili nel modo di vedere la vita, creano subito una sintonia ma alcune situazioni capovolgeranno l’equilibrio e la strada sentimentale.
Per Giulia e Dario il percorso non è poi tanto diverso perché il regista sembra voler sottolineare che, a prescindere dalle affinità intellettive e da ciò che si ritiene giusto per se stessi, quando ci si relaziona con un’altra entità basta poco per confondere le carte in tavola e seguire una strada diversa da quella si pensava essere la migliore.
Le altre due combinazioni (Giulia e Matteo, Chiara e Dario) sembrano quelle più improbabili, se si pensa alla teoria della metà della mela ma, tutto sommato sono ugualmente credibili, sembrano essere complete allo stesso modo della prima combinazione delle coppie.
4 metà in questo modo riesce a confutare l’esistenza dell’anima gemella e, in alcune situazioni, a smascherare quel romanticismo che appartiene all’amore perché amare, in fondo, significa fidarsi, scegliendo di intraprendere un percorso con qualcuno.
La vita spesso ci pone davanti a degli imprevisti, creando nuove situazioni perché nulla si può prevedere quando si vive e tutto può accadere. Non esiste l’amore perfetto, la coppia perfetta o l’anima gemella perché è tutto mutevole e in continuo movimento.
Ci si può innamorare all’istante, per sfida, per maturità, per responsabilità ma ciascun sentire non è meno nobile di un altro.
Per scoprire meglio il senso di queste parole non vi resta che guardare 4 metà, in programmazione su Netflix.
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