Cultura

Crisi di civiltà. Pandemia e capitalismo di Noam Chomsky oggi in anteprima

Noam Chomsky, maggior linguista, filosofo, scienziato cognitivista e teorico della comunicazione vivente nonché punto di riferimento della sinistra radicale, pubblica un nuovo libro dove affronta le varie declinazioni della pandemia, la crisi della civiltà e i risvolti che ora stiamo intravedendo.

Il nuovo libro di Noam Chomsky

Crisi di civiltà. Pandemia e capitalismo di Noam Chomsky

Crisi di civiltà. Pandemia e capitalismo di Noam Chomsky, uscito in anteprima il 21 maggio in ebook, è formato da tutte le interviste che, il filosofo, ha rilasciato in questi mesi. Ciò su cui pone l’accento il linguista è come questa pandemia, arrivata all’improvviso, non ha fatto altro che mettere in luce tutte le crepe, i problemi e i controsensi del modello di una società fondata sul capitalismo e una visione politica mondiale che, messa alle strette per cause di forza maggiore, ha rivelato la sua precaria stabilità.

Una stabilità apparente attraverso le parole ma che nei fatti ha mostrato non solo una crisi sanitaria ma storica, economica, sociale ed ecologica.

Cosa abbiamo scoperto e cosa ha visto Noam Chomsky?

Il Covid-19 ha colto il mondo impreparato, e si prevede che le conseguenze economiche, sociali e politiche della pandemia saranno drammatiche, nonostante la promessa, fatta di recente dai leader del G20, di iniettare cinque bilioni di dollari nell’economia mondiale per stimolare la ripresa.

Quali insegnamenti possiamo trarre da questa pandemia?

La crisi generata dal coronavirus porterà a una nuova forma di organizzazione della società, con un ordinamento sociale e politico in cui il profitto non sia al di sopra delle persone?

È stato palese constatare che i potenti che muovono i fili degli interessi mondiali hanno messo in secondo piano la sopravvivenza dell’umanità a favore del capitalismo e dei meri interessi economici, favorendo una piccola élite.

Partendo da un’analisi sulla situazione che, a causa della pandemia, si è verificata negli Stati Uniti si intravede come il neoliberismo ha distrutto il compito principale della politica, trasformandola in uno strumento che ha prospettato l’illusione di una supremazia inconsistente e di un’autonomia di mercato che, unita all’incompetenza e alla malafede, ci sta conducendo verso un disastro enorme.

Crisi di Civiltà. Pandemia e capitalismo di Noam Chomsky

Il nuovo libri di Noam Chomsky

Come afferma il Noam Chomsky:

Il male affonda le radici in un colossale fallimento del mercato, esacerbato dal capitalismo dell’era neoliberista; sussistono poi degli elementi specifici degli Stati Uniti, che vanno dal disastroso sistema sanitario e la debole tenuta della giustizia sociale – gli Stati Uniti sono agli ultimi posti nella classifica dell’OCSE – a quella macchina demolitrice che si è impossesata del governo federale.

Favolacce dei fratelli D’Innocenzo è una pellicola senza sconti sulla società

Favolacce di Fabio e Damiano D’Innocenzo è un film che sarebbe dovuto uscire nelle sale l’11 maggio ma che, per ragioni che conosciamo bene, è disponibile su diverse piattaforme online.

Il lungometraggio si discosta dal classico cinema italiano ma si avvicina, soprattutto per la fotografia, a quei film internazionali d’essai o a quella fotografia ricercata e curata, come quella di Matteo Garrone e di Mario Martone, che ritrae la realtà con la luce naturale e senza giocare con l’eccessiva brillantezza delle immagini.

Il film dei fratelli D’Innocenzo non si ispira a romanzi o a storie realmente accadute ma è un lavoro cinematografico che come racconta la voce narrante all’inizio:

Quanto segue è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata.

I registi conducono lo spettatore nei quartieri periferici di Roma ma non quelli degradati mostrati in Amore Tossico da Claudio Caligari. Ci si trova in una periferia composta da villette a schiera nuove dove ci si incontra nei giardini privati, per fare cene tra vicini di casa e sottolineare, probabilmente, il riscatto sociale e culturale attraverso la lettura collettiva delle pagelle scolastiche dei propri figli.

Da alcuni particolari del quotidiano dei protagonisti del film si nota una sorta di evoluzione sociale ma che ha, nonostante tutto, notevoli lacune comportamentali dettate da un’educazione in cui si è lottato e in cui si fanno sacrifici per poter vivere nelle villette.

Favolacce: la locandina

Locandina del film

È palese, nei protagonisti di Favolacce, il senso di frustrazione e l’aspirazione vana di poter raggiungere uno status sociale diverso da quello ottenuto nella realtà.

Non c’è un argomento principale che compone la trama di Favolacce: il film sembra quasi voler riprodurre su pellicola problematiche familiari, sociali e interpersonali che fanno riflettere. Il primo che salta agli occhi è il ruolo genitoriale, il personale concetto di saper educare i propri figli meglio degli altri ma che si rivela fallimentare con l’epilogo di alcune scene che sono davvero emblematiche e che evito di descrivere, per non rovinare un’eventuale visione della pellicola.

Tra i diversi gruppi familiari che animano Favolacce i registi si soffermano su una famiglia in particolare, quella che in apparenza sembra la più solida, serena e normale ma che, in realtà, è quella psicologicamente ed emotivamente più fragile e che si sgretolerà in un attimo.

I ruoli maschili e femminili dei protagonisti di Favolacce sono standardizzati e realistici in un modo che, a volte, infastidisce per la sincera schiettezza, che mostra senza metafore la nostra pochezza e povertà d’animo.

Favolacce: trailer

L’ultimo film dei registi italiani con Elio Germano

Le donne sono figure passive, dedite alla casa, al lavoro per chi lo ha e ai figli.

Le mogli sono passivamente compiacenti nei confronti dei loro mariti, sono delle figure marginali che non hanno molto acume, come se avessero abbracciato quel ruolo che è stato tramandato loro, impartito dalle loro madri e che, senza alcuno spirito critico o moto di evoluzione, hanno accettato con tranquillità e consapevolezza.

Gli uomini invece sono propensi alla violenza verbale e fisica, si nutrono d’invidia verso gli altri, in particolar modo nei confronti di chi vive una condizione più agiata della propria. Il loro senso di frustrazione è costante e, spesso, trascende nel cameratismo adolescenziale che, probabilmente, non hanno ancora superato a prescindere dall’età e dalle esperienze di vita.

Il film dei fratelli D’Innocenzo è una favola realistica del nostro tempo, che sottolinea il nostro senso di inadeguatezza che, spesso, sfocia nella frustrazione e nel sentimento negativo verso l’altro. Dalla pellicola fuoriesce la poca umanità che contraddistingue l’essere umano, proiettato non sul miglioramento interiore ma sull’ostentazione inutile di un’apparenza inconsistente e vuota.

Favolacce ha ricevuto alla Berlinale 2020 l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura.

Nasce il Disability Pride Network

Il Disability Pride Network nasce per promuovere i diritti civili delle persone con disabilità, cercando di favorire l’inclusione sociale. È una rete internazionale che si compone di persone che condividono gli stessi obiettivi e valori, per affermare un nuovo modo di vivere, pensare e dare spazio alle persone che non hanno ancora la giusta voce all’interno della nostra società.

La disabilità è stata spesso vista con occhio circospetto, che ha creato paura, vergogna ed esclusione. Ancora oggi si guarda alla disabilità come negazione della normalità quando, in realtà, ci sono potenzialità che si celano dietro questo modo di stare al mondo.

C’è bisogno di accoglienza e di accettare situazioni differenti, scardinando il senso di esclusione che molti disabili sentono e avvertono quando vogliono cercare di condurre una vita normale, al pari delle altre e a giusta ragione.

Disability Pride Network

Disability Pride Network

Disability Pride Network: fondamenti dell’iniziativa

I principi su cui basa Disability Pride Network sono i seguenti:

  • Sostenere e promuovere l’autodeterminazione delle persone con disabilità, rispettandone l’indipendenza, l’autonomia e la dignità.
  • Rispettare e promuovere il valore delle differenze tra gli esseri umani.
  • Incentivare la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica.
  • Educare alla cultura senza discriminazioni.
  • Promuovere le pari opportunità, in particolar modo nei settori formativi e lavorativi, tra persone senza disabilità.
  • Valorizzare le attitudini e le competenze delle persone con disabilità.
  • Sostenere il turismo sostenibile per le persone con disabilità.
  • Educare alla non discriminazione in tutte le sue forme.

Disability Pride Network dal 2015 ha dato luogo ad una parata che si svolge in Italia nel periodo estivo e che ogni anno sceglie una città diversa per potersi incontrare e creare questo momento di aggregazione.

Questo network rappresenta uno spunto di riflessione importante che, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo intriso di pregiudizi, dovrebbe farci riflette sulla scoperta dei valori che dovrebbero muovere il mondo. Ci si dovrebbe soffermare sul significato del termine di uguaglianza e sul suo valore intrinseco perché è diritto di tutti quello di avere pari opportunità a livello sociale, ricreativo e lavorativo.

Spike Lee cattura delle immagini della Grande Mela deserta e ne realizza un corto

New York non è stata mai così silenziosa e deserta. Un volto diverso ci mostra questa città che è sinonimo di vita e che, ora, è costretta al silenzio a causa della pandemia. Questa nuova immagine della Grande Mela non è sfuggita all’occhio sensibile di Spike Lee che ne ha realizzato un cortometraggio.

Il titolo del lavoro si chiama semplicemente New York New York e si compone di scorci della città noti a molti di noi per la moltitudine di luci, traffico e passanti che vengono sostituiti da cartoline che immortalano la stasi, mossa e scossa da lievi folate di vento che animano la scena.

L’effetto è molto toccante e apocalittico.

New York New York: il conrto di Spike Lee

Il regista americano realizza un cortometraggio che raccontano la sua città in isolamento

Spike Lee nota come sia doloroso vedere la sua New York in questo stato.

Nell’immagine finale del corto le luci intermittenti rosse danno l’idea di un cuore che, nonostante tutto, pulsa ancora e quindi la sua immobilità non è morte ma vita che aspetta di riprendere il suo tempo.

Impressioni da Covid-19

Sicuramente non dimenticheremo più questo periodo legato al quasi inizio del 2020. Le speranze in progress, per il nuovo anno, non hanno avuto neanche il tempo di prendere una forma nella nostra mente, che si sono trasformate in speranze di ritornare alla vita che abbiamo lasciato con disprezzo, sentimento con cui si saluta ogni anno che trascorre.

Abbiamo assaporato e scoperto il vero significato che ha la parola noia, siamo stati costretti a fermarci eppure, spesso, auspicavamo una stasi, per avere del tempo per noi. È accaduto ma non era come ce lo aspettavamo.

Probabilmente da questi mesi trascorsi come un unico giorno infinito abbiamo compreso il reale significato che ha la parola libertà, abusata e mai vissuta pienamente. E forse inizieremo a concepirla e a viverla nel modo in cui avremmo dovuto fare già prima.

Abbiamo scoperto che la libertà, un diritto che democraticamente abbiamo sempre assorbito come un diritto inalienabile, in fondo, così scontato non è. Siamo liberi ma questo privilegio ci può essere tolto, per cause di forza maggiore e trasformarci da esseri indipendenti a soldatini che non hanno più possibilità di scelta.

Questa parantesi non è una critica alle imposizioni cui abbiamo dovuto sottostare e a cui sottostiamo ma è uno spunto di riflessione che, forse, dovrebbe renderci più consapevoli di ciò che siamo e di ciò che rappresentiamo. Queste parole non sono spinte dalla speranza di poter diventare migliori ma dalla speranza di prendere coscienza e consapevolezza, per poter vivere ogni giorno apprezzando tutto ciò che prima davamo per scontato.

Abbiamo vissuto con la paura del contagio e questa paura non è terminata e non diminuirà con la fase 2. Abbiamo vissuto con l’angoscia di poter contrarre il virus, questo essere invisibile che si insinua silenziosamente con il suo tempo di incubazione e che, nella peggiore delle ipotesi, ci avrebbe potuto portare e potrebbe portarci alla morte o a quella dei nostri cari. Nella migliore delle ipotesi, controllando uscite, gesti e utilizzando tutte le precauzioni possiamo evitarlo, ritendendoci dei graziati in virtù di fattori che, tutt’oggi, sono diversi, ipotizzabili e variabili.

Abbiamo scoperto l’introspezione e l’obbligo di fare i conti con ciò che siamo realmente, confrontandoci direttamente con noi stessi. Per quante siano state le distrazioni offerte dal web, dalle video call con gli amici e dai mille palliativi e strategie che abbiamo adottato per far trascorrere più velocemente il tempo, queste ore non passavano mai e ci riportavano sempre a doverci guardare dentro o a pensare a quello che siamo stati, che siamo e che vorremmo diventare in futuro.

Ci siamo abituati allo scorrere del tempo lento e monotono, rassegnandoci.

Abbiamo scoperto la paura e la diffidenza fisica mentre prima era solo morale, metafisica e universalmente valida, ma mai palese, per ciascun individuo.

Il Covid-19 ci ha reso migliori? Non credo. Sono convinta che il virus ci ha resi più umani nel senso di fragili, precari, instabili e più egoisti. Potremmo diventare migliori? Forse per chi è predisposto alla trascendenza sì, ma credo che rappresenti una piccola parte.

Probabilmente questo virus ci ha temprati attraverso la costrizione, l’obbligo e la stasi ma la forza mentale da sola non basta per essere migliori. Probabilmente ci riscopriremo più umani con le persone che già prima di questa pandemia avevano un alto valore affettivo per noi, predisposizione che, sicuramente, non riserveremo ad altri sconosciuti anche perché per ora non è pensabile stringere tutti i propri cari, figuriamoci chi ancora non conosciamo.

Il Covid-19 ci ha insegnato il senso profondo che ha un vero abbraccio e un sorriso che, per ora, sarà nascosto da una mascherina che rappresenterà la nostra umanità vista solo a metà perché la totalità non si vede e non sappiamo quando la si potrà vedere.

Mi auguro vivamente che tutti impariamo a vivere più di sostanza che di apparenza.

Wim Wenders omaggia Edward Hopper con uno short in 3D

Edwar Hopper è considerato il miglior pittore realista americano del XX secolo.

I suoi quadri trasudano solitudine e malinconia che vanno in contrasto con il frenetico ritmo sociale di quell’America del suo tempo, travolta dalla frenesia lavorativa, che sembrava non bastare mai.

I temi più cari del pittore oggi, in cui ciascuno vive isolato tra le proprie mura domestiche o nelle passeggiate in solitaria, sembrano essere un ritratto del nostro tempo che segue il ritmo lento, quasi inesistente, di un fluire statico, ripetitivo e malinconico.

Edward Hopper non è mai stato così attuale come lo è ora.

Wim Wenders, regista e produttore cinematografico tedesco, ha scelto di far rivere attraverso un corto in 3D, della durata di 14 minuti, le opere più significative ed emblematiche dell’artista.

Edward Hopper

Edward Hopper

Wim Wenders del pittore e della sua arte dice:

Non sapevo neanche chi fosse Edward Hopper prima di vedere i suoi quadri al Whitnei all’inizio degli anni ’70: fu una delle scoperte più sorprendenti che mai avessi fatto in materia di arti visive.

Il grande mistero è come Hopper ci faccia interrogare su cosa sta succedendo e cosa sta per succedere. I suoi personaggi sono perennemente in attesa. Tutte le possibilità sono aperte: Hopper non ha mai spiegato il suo lavoro. Ha lasciato a noi il compito di completare la scena.

Decameron: tra pandemie, Pasolini e Napoli

Eppure qualcosa ne verrà fuori.

Sapremo presto se questa costrizione domestica ci abbia fatto migliorare, in termini umanistici o peggio, ci abbia fatto accelerare la folle corsa verso l’agognato e utopico traguardo che ci siamo prefissati a discapito del prossimo. La vista all’orizzonte di un tracollo economico, di un abbattimento morale per tutte quelle donne e quegli uomini morti in solitudine, di una paura collettiva non potranno certo farci rialzare con un certo orgoglio, certamente, tenendo conto che ognuno dovrà vedersela con le proprie perdite, in primis valutando anche la scomparsa dei propri cari, o comunque di tutti coloro che hanno pagato con la vita.

Successe qualcosa di analogo nel Decameron, la raccolta di cento novelle scritta da Giovanni Boccaccio tra il 1349, l’anno successivo alla peste nera che si abbatté sull’Europa, e il 1353.

Fu proprio la peste nera, che allora si dichiarò come una pandemia, che provocò quasi venti milioni di vittime, dai nobili alla povera gente, quest’ultima di certo non pronta a eventuali motivi di difesa, né a possibilità di fuga, data la situazione di estrema miseria.

Giovanni Boccaccio, nell’introduzione del Decameron, descrisse gli effetti della pandemia, orrido cominciamento, e ne offre una spiegazione in termini di stravolgimento dei costumi, senza tralasciare la scarsa influenza delle leggi, l’esaltazione del sesso come materia di fuga e frutto di ogni freno inibitore, sconvolgendo il comportamento del genere umano, che inizia ad avere un contatto più diretto con la morte. La fine dell’esistenza non è che una parte dell’esistenza stessa, e le sepolture iniziano a susseguirsi a ritmi incredibili, fino a che pèrdono dell’anche possibile sacralità del rito stesso, e i defunti vengono ancorché umiliati con le sepolture di massa, con le fosse comuni.

Giovanni Boccaccio scrive:

…ma per ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion dimostrare, quasi da necessità costretto a scrivere mi conduco.

Nel Decameron esiste però anche una giustificazione ad una reazione più intellettualmente sensata.

La peste viene raggirata da un gruppo di dieci giovani, sette donne e tre uomini, tutti di elevato spessore sociale, che pensano ad una soluzione: affrontare una quarantena insieme e ritirarsi in campagna, offrendosi ognuno come narratore, e nel cui contesto vengono raccontate le cento novelle che fanno parte dell’opera.

Racconti che spesso contengono visioni di una materia sessuale vista come un ritorno alla natura umana, più che ad una provocazione, e anche se c’è comunque da dire che il sesso non è l’unico argomento trattato nelle novelle, il Decameron fu soggetto a critiche e a censure.

L’incredibile freschezza morale che contiene quest’opera del ‘300 è, innanzitutto, l’affermazione della libertà sessuale delle donne, che viene descritta al pari di quella degli uomini, e dove alle donne viene concessa la completa libertà delle parole, quindi il loro valore espresso a pieno anche in maniera verbale, dato che, come lo stesso Giovanni Boccaccio ritiene, alle donne il molto parlar si disdice.

Giovanni Boccaccio includerà nell’opera vari riferimenti alla sua città più amata per eccellenza, Napoli, che gli ricorderà sempre i trascorsi in cui incrementò la passione per la letteratura, a dispetto della professione del padre, mercante fiorentino, che voleva un ovvio erede per i suoi commerci.

Il Decameron è forse l’opera letteraria con più trasposizioni cinematografiche in assoluto, e basta citarne qualcuna, per averne un’idea chiara: dal più recente Maraviglioso Boccaccio (2015) dei fratelli Taviani, partendo dal Boccaccio (1940) di Marcello Albani, passando per Notti del Decamerone (1953) di Hugo Fregonese, e tutto ciò solo per nomenclarne alcuni, la cui origine su pellicola prende spunto forse dal primo film tematico in assoluto, ossia un muto, Il Decamerone (1921).

Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini e Napoli

Non si esclude, certo, che l’adattamento più celebre in assoluto fu Il Decameron (1971), trasportato al cinema da Pier Paolo Pasolini, e che ebbe, forse  a maggior ragione, più effetto perché fu interamente girato con dialoghi in dialetto napoletano, e questo dice molto, ma di sicuro ancora non tutto.

Napoli, città amata sia dal regista, poeta e scrittore friulano che da Giovanni Boccaccio, fu la protagonista dell’intera pellicola, e esattamente nel 1970, cinquant’anni fa, iniziarono lì le riprese per il film che avrebbe visto la luce soltanto l’anno dopo, e che sarebbe stato soggetto a continue modifiche e tagli, che avrebbero ridotto la durata, in principio pensata intorno alle tre ore.

La gestazione e la presentazione al pubblico de Il Decameron ebbero una storia lunga.

Dapprincipio, almeno all’estero, il film ottenne un successo strepitoso, ottenendo l’Orso d’Argento al Festival del Cinema di Berlino, mentre in Italia fu soggetto a sequestro per oscenità, accusa che però decadde dopo poco tempo, con molta probabilità proprio grazie al prestigioso premio ottenuto.

Con Il Decameron si aprirà la cosiddetta trilogia della vita di Pier Paolo Pasolini, che continuerà con I Racconti di Canterbury (1972), e Il Fiore delle Mille e una Notte (1974), finendo poi con l’apoteosi di un cinema che farà della mercificazione del sesso la filosofia di una vita consumistica malata e corrotta, ossia Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Il Decameron, invece, illustra una sessualità innocente, del tutto naturale e spontanea, così come viene illustrata nell’opera di Giovanni Boccaccio, e sarà soltanto l’inizio di un percorso che mirerà ad uno scopo: colpevolizzare la società moderna nella scelta di utilizzare la materia sessuale come ritratto proprio di ossessione e contrapposizione ad un’età sì arcaica, ma a suo tempo ricca di valori persi con l’incedere del forte ritratto dell’influenza dei media, come la televisione, che hanno generato una sorta di genocidio culturale, quest’ultimo tema frequente nella filosofia di Pier Paolo Pasolini.

Tornando alla realizzazione, perché la scelta di questa trasposizione cadde proprio su una location particolare come la città di Napoli? E perché la lingua parlata dai suoi protagonisti è quasi sempre il dialetto napoletano?

Come accennavo poc’anzi, la città a cui Giovanni Boccaccio rimase affezionato per sempre fu proprio Napoli, che grazie ai suoi primi amori (Fiammetta, che trovò posto tra i protagonisti del Decameron), ai suoi sbocchi culturali, riuscì a donare allo scrittore fiorentino la giusta aspirazione per le sue passioni, che lo allontanarono dalle ambizioni paterne, dedite al commercio, impegno che per eredità sarebbe stato inoltrato a lui.

Non si discosta la scelta di Pier Paolo Pasolini, seppur per altri ovvi motivi: all’inizio combattuto per le varie ambientazioni che avrebbe considerato per dirigere le varie parti che avrebbero illustrato le novelle boccacciane, si decise infine su Napoli, e su essa soltanto. Per comprendere meglio le motivazioni, eccovi una sua spiegazione:

I napoletani sono l’ultimo momento autenticamente popolare che posso trovare in questo periodo in Italia. Perché ho scelto Napoli? Per una serie di selezioni e di esclusioni. Nel momento in cui ho pensato di fare un film profondamente popolare, nel senso proprio tipico, classico di questa parola, ho dovuto escludere pian piano tutti gli altri possibili ambienti. Mi è rimasto Napoli, fatalmente, perché Napoli, proprio fatalmente, storicamente, oggi, è la città d’Italia, luogo d’Italia, dove il popolo è rimasto più autenticamente sé stesso, simile a quello che era nell’Ottocento, nel Settecento, nel Medioevo.

Murales di Pier Paolo Pasolini

Murales di Pier Paolo Pasolini

Lo stesso Pier Paolo Pasolini rivestirà il ruolo di un attore, l’allievo di Giotto, che si reca in Santa Chiara per realizzare un affresco, e la scelta non sembra casuale, a questo punto, perché il regista pare voglia, in qualche modo, accentuare il ruolo pittorico che ha voluto apportare ad un film essenzialmente colorato dalle varie scene ed ambientazioni popolari del Medioevo a Napoli.

Carmine Maffei

Lindsay Dances: il docufilm di Rita Rocca in prima visione su Rai 5

Lindsay Kemp è nel suo salotto livornese e sta parlando di David Bowie, uno dei suoi più carissimi allievi.

Indossa un abito leggero con fantasie primaverili ed è seduto sul suo divano, mentre discute in maniera molto educata ma teatrale, senza nascondere un bel pò di euforia, mentre alza gli occhi al cielo e ricorda l’attimo in cui conobbe quel ragazzo fascinoso, quel musicista che avrebbe stravolto il mondo della musica e dei costumi. Gli stessi per cui Lindsay Kemp lo avrebbe indirizzato, contribuendo così alla riuscita di uno dei suoi più grandi capolavori: un effetto incredibile di musica, bravura, ingegno, danza, teatro, mimo ed eccitante androginia.

Espresse il desiderio di imparare da me, e il giorno dopo iniziò a frequentare le mie lezioni di danza.

Parla di quell’incontro del 1966, il primissimo, che avrebbe sconvolto la vita di entrambi: il grande ballerino e coreografo, paragonandolo ad un Arcangelo Gabriele, restò abbagliato dalla bellezza di David Bowie, mentre quest’ultimo, che apprezzava a dismisura i suoi spettacoli, sentiva che quella sua volontà di imparare da un genio avrebbe rivoluzionato per sempre il suo atteggiamento verso un pubblico ancora troppo scettico. Non aveva tutti i torti: quando durante i concerti del tour di Ziggy Sturdust, capì di essere finalmente una star, fu anche per merito del suo maestro di danza, che partecipava allo spettacolo. La scena descritta s’intitolava Starman, e Lindsay Kemp scendeva dall’alto con un costume argentato, a forma di ragnatela, mentre si calava da un’altezza di circa venti metri, e infine, una volta atterrato danzava con David Bowie. Mastro e allievo in una fusione sensuale di corpi che in armonia davano vita alla mitizzazione di quell’universo alieno creato da entrambi, per quel mondo terreno che forse era ancora impreparato, ma che assimilò il tutto per stravolgere il futuro delle arti e della musica.

Questo e tanto tanto altro potrete vedere nel docufilm Lindsay Dances – Il Teatro e la Vita secondo Lindsay Kemp (2020), che andrà in onda in prima TV assoluta sabato 2 maggio alle 22:40 su Rai 5.

È un film di rara importanza, realizzato in esclusiva per Rai Cultura e Rai 5. Dedica un ricordo che abbraccia la carriera entusiasmante di un personaggio geniale ed iconico, un artista come pochi, che ha saputo lasciare un segno indelebile nell’universo della danza e dello spettacolo.

La regista di Bowienext

Rita Rocca

Ideatrice e regista di questo documento storico è Rita Rocca, giornalista e documentarista Rai, oltre che conduttrice radiofonica del GRRai, che nel 2018 aveva presentato sulla stessa rete Bowienext-Nascita di una Galassia, da cui poi sarebbe nato il libro antologico omonimo edito da Arcana nel dicembre dello stesso anno, firmato insieme al critico musicale e biografo bowiano Francesco Donadio.

Ambedue gli omaggi presentavano ricordi e pensieri da ogni parte del mondo dedicati a David Bowie.

Lindsay Dances è un altro film di Rita Rocca perché sulla scia di quello dedicato al Duca Bianco, continua col narrare, quasi come se fosse un sequel, in un modo squisitamente antologico il repertorio storico del grande danzatore, coreografo e regista inglese.

Lindsay Kemp

Lindsay Kemp

Sono, ad esempio, descritti gli spettacoli della Lindsay Kemp Company, fin dalla fine degli anni ’70 fino a tutti gli anni ’90; inoltre sono stati recuperati filmati provenienti dalle Teche Rai ed è stata effettuata una ricerca meticolosa tra alcuni archivi privati, mentre lo stesso Lindsay Kemp, intervistato dalla giornalista Rai, racconta nella sua maniera simpatica, teatrale ed entusiasta gli spettacoli che gli resero più fortuna, come gli stessi concerti di Ziggy Sturdust, oppure del Flowers a Duende, il Midsummer’s  Night’s Dream, e anche il The Big Parade, fino all’ultimo Kemp Dances. Non mancano stupefacenti foto del backstage, con tutti i suoi segreti, poi delle scene e infine dei momenti di vita privata del grande artista, immortalati da due fotografi da nomi altisonanti come Guido Harari e Richard Haughton.

Si sottolineano circostanze dedicate alla sua infanzia, durante la guerra, i combattuti inizi della carriera tra le rovine post belliche londinesi, la povertà e gli spettacoli che iniziò a presentare a Roma, in Piazza Navona, negli anni ’70, da cui nacque la passione di Romolo Valli, che portò nella stessa città la Lindsay Kemp Company.

L’artista inglese, infatti, memore di ciò, non nascose il suo grande amore per l’Italia, che sarebbe diventata la sua seconda patria, scegliendo di vivere a Livorno, la città di Amedeo Modigliani (Lindsay Kemp era anche pittore), dove sarebbe morto nell’agosto del 2018.

Nella sua dimora livornese, poco tempo prima, sarebbe giunta Rita Rocca per intervistarlo, e cominciare questo lavoro maturo ed indispensabile, per cui ha raccolto con grande passione e dedizione più materiale possibile.

Proietto la mia energia, la diffondo. Uso la mia energia per donarla agli altri sempre, e non solo in scena. Sempre, attraverso la mia presenza, il mio essere, e molto spesso mediante la mia immobilità. La mia immobilità dice di più dei gesti. Così come il mio silenzio dice di più delle mie parole.

La vita di Lindsay Kemp era un teatro, e nel teatro egli ne traeva conclusioni per la sua vita. Ambedue le condizioni si fondevano, dando forma ad un personaggio dai toni ora colorati, ora toccanti, ora trasgressivi, dove spesso la depressione cozzava contro la volontà di sapersi affermare, dove non sarebbero mancate le droghe, ma dove avrebbe conosciuto anche una lucidità artistica che avrebbe contraddistinto il suo personaggio, che non era altri che l’attore della sua stessa esistenza.

In Lindsay Dances ci sono oltretutto interviste a coloro che hanno condiviso insieme a lui momenti memorabili, nel lavoro e nelle amicizie, come i danzatori della sua Compagnia François Testory, Cecilia Santana e Ivan Ristallo; Daniela Maccari, che fu sua musa e instancabile assistente personale fino alla fine dei suoi giorni. Intervengono nel film, chiarendo il loro punto di vista da parte del pubblico il critico d’arte Vittorio Sgarbi e l’attrice Veronica Pivetti.

Rita Rocca ha saputo unire, con questo film, un ricordo carico di affetto, che si fonde con un lavoro meticoloso, sentito, e dove l’incredibile talento nel comporre immagini, testimonianze, ricordi, interviste, suoni, sta creando un filone emotivo che apparterrà soltanto a sé stessa, e ne dichiarerà, in un futuro molto prossimo, senza dimenticare il presente, una stima profonda da parte di un pubblico che cresce. Forse lo stesso pubblico entusiasta che applaudì la riuscita di un mito della danza e dello spettacolo come Lindsay Kemp.

Carmine Maffei

Crisi da Covid-19: il 70% degli editori verso la cassa integrazione

L’Italia, lo sappiamo, rientra tra quei Paesi in cui la lettura è una virtù poco praticata dalla maggior parte della popolazione.

Questo aspetto culturale e di abitudine intellettuale ha sempre fatto camminare su un filo precario il mondo dell’editoria nostrana. L’emergenza Covid-19 ha dato la stoccata finale a questo settore, che già se la passava malaccio.

Crisi nel mondo del libro

Crisi nel mondo del libro

Il 70% degli editori sta programmando la cassa integrazione, per cercare di limitare i danni economici che si fanno già sentire.

Molti editori, infatti, stanno bloccando le novità 12.500 in uscita, che sono pari a 44,5 milioni di copie che non saranno stampate.

Il futuro, post quarantena da Covid-19 come già preannunciato da molti, non si prospetta dei più rosei per l’intera economia italiana e, soprattutto, per quei settori che già arrancavano prima di questa devastante emergenza pandemica.

Per sole donne: il romanzo di Veronica Pivetti dedicato alle over 40

Per sole donne (2019) è il primo romanzo di Veronica Pivetti pubblicato da Mondadori.

Protagoniste del libro sono cinque donne molto diverse tra loro, con esperienze matrimoniali e di singletudine altrettanto divergenti eppure, tra loro, sono legate da un’amicizia e dalla confidenza che deriva dalla conoscenza profonda l’una dell’altra.

Per sole donne mi ha riportato alla mente il romanzo Dieci donne (2010) di Marcela Serrano. Questi due libri hanno in comune l’universo femminile ma differiscono nettamente nel modo in cui se ne parla e negli aspetti che, le due scrittrici, vogliono evidenziare.

Marcela Serrano punta sull’universalità psicologica delle donne, aggregate da scelte sociali universali come il matrimonio, la procreazione e la frustrazione coniugale che accompagna tutte le sue protagoniste.

Veronica Pivetti, invece, ci mostra un mondo reale femminile fatto di cameratismo pungente che non ha peli sulla lingua nel raccontare gesta sessuali eroiche o fallimentari. Per sole donne ci mostra una fascia femminile presa ancora troppo poco in considerazione: quella delle donne single per scelta e felici di esserlo nonostante l’età e i dettami sociali, che guardano con sospetto questa categoria, difficilmente incanalabile agli occhi di molti.

Un pò come accade alla protagonista di Volevo essere una vedova, l’ultimo romanzo di Chiara Moscardelli (2019).

Per sole donne: la recensione

Il primo romanzo sulla verità delle over 40

Le protagoniste di Per sole donne sono donne over 40 che lottano contro la forza di gravità, cui cerca di soccombere il loro corpo, di sesso e di menopausa e raccontano le loro problematiche in modo schietto, irriverente, cinico e divertente.

Era sempre stata serenamente incurante del suo corpo, l’aveva sottovalutato anche quando, una trentina d’anni prima, era bello sodo e geneticamente impermeabile alla forza di gravità. Era una magra felice di esserlo con con una punta di perversa ammirazione per quelle smunte fotomodelle scheletriche che barcollavano sulle passerelle di mezzo mondo, quasi tutte bruttine, spesso malvestite ma magre, magre da morire.

Mai abbastanza ricche, mai abbastanza magre sentenziava Coco Chanel e Adelaide era disperatamente d’accordo con lei, anche se dei soldi non gliene importava granché. Non era certo milionaria, ma avrebbe potuto sfamare svariati figli, se ne avesse avuti. Per fortuna non ne aveva.

Tutte le mattine e tutte le sere ringraziava i suoi ovuli per essere stati così riottosi quelle tre o quattro volte che aveva tentato, senza alcuna convinzione, di rimanere incinta.

Tra le protagoniste di Per sole donne ci sono anche coloro che hanno cercato di non deludere la società inscenando un rapporto a due che però, con gli anni, si è dimostrato fallimentare:

Rosaria sfoggiava un marito retrocesso a coinquilino col quale  aveva firmato un patto di non belligeranza che, tutto sommato, reggeva. Dividevano un passato tormentato, un presente dignitoso e due gatti bellissimi che adoravano: Capra e Cavoli.

Per sole donne, contrariamente al titolo che è volutamente provocatorio, è un romanzo adatto anche al sesso opposto perché svela esigenze reali e modi di interpretare la vita, che sono comuni a molte, nonostante risultino essere lontani dai classici stereotipi, ma che vengono svelati solo alle confidenti o alla voce interiore con cui ciascuna di noi si rapporta da sempre.

Scroll to top