Il codice di Bianzano e i templari nella bergamasca di Luigi Fiorentini è un romanzo esoterico ambientato nel territorio bergamasco; in esso, a quelli espressamente drammatici si alternano contenuti fantastici.
L’opera inizia con un episodio risalente al 1312. A distanza di settecento anni, però, una bambina di nome Ester scorge un’antica pergamena nei pressi di una chiesetta; la estrae e la porta con sé, a casa.
La perfida madre di una sua compagna di scuola, essendo un’adepta di una setta dedita a pratiche occulte pure alla ricerca di quella pergamena, comunica al suo sacerdote nero di sapere dove si trova quel prezioso oggetto. Qualche anno dopo, Ester si trasferisce in Francia, con i suoi genitori.
Passati nove lunghi anni, ed essendo diventata già una giovane donna, un giorno Ester lascia incustodita la pergamena e suo padre la scopre.
Costui, Tarcisio, essendo un ex cavaliere Templare, aiuterà la figlia a decriptare il codice contenuto nella pergamena.
Nell’agosto del 2022, tornati nella loro terra d’origine per un periodo di vacanza, in Val Cavallina, ne approfittano per recarsi nei luoghi indicati sulla pergamena.
Dopo lunghe e accurate ricerche, riescono finalmente a decifrare quel codice segreto scoprendo, così, il luogo esatto in cui sarebbe conservata una sacra reliquia.
Essendo però perseguitati da quella setta, che vuole impossessarsi a ogni costo della misteriosa pergamena, Ester e Tarcisio, al fine di risolvere quanto prima quella pericolosa situazione, escogitano un piano davvero geniale.
Nel corso dei successivi e ultimi capitoli, una serie di situazioni impreviste e colpi di scena animeranno intensamente il resto della narrazione.
Qualcuno, in quel preciso momento, suonò al citofono.
Il marito, che stava seduto su una sedia e chinato verso il camino, si alzò e andò ad aprire, senza neppure chiedersi chi fosse dietro la porta. Aperto l’uscio di casa, vide davanti a sé un uomo robusto, sulla trentina; quest’ultimo, senza pensarci neppure un attimo, spinse con inaudita violenza l’anziano verso l’interno e irruppe bruscamente in casa, seguito da altri tre individui: due uomini e una donna. L’ultimo dei quattro balordi, chiuse la porta alle sue spalle e, com’era evidente da quella loro inspiegabile incursione, cominciarono a minacciare i due anziani con coltelli e bastoni. Ciò che parve più strano agli anziani coniugi, fu il fatto che nessuno di loro aveva 2 mai visto prima di allora quegli inquietanti individui; così come anche questi ultimi non conoscevano assolutamente i padroni di casa.
Luigi Fiorentini: chi è?
Luigi Fiorentini, nato a San Biagio Platani in provincia di Agrigento nel 1967, è compositore, scrittore e didatta. Ha ottenuto riconoscimenti in vari concorsi di Composizione, collabora con un periodico di arte e ha pubblicato molti lavori musicali.
Dal 1996 vive nella bergamasca dove insegna musica e scrittura creativa.
Sue opere letterarie sono:
– La musica nell’anima (2013) e I doni del fantasma (2018) con Sensoinverso Edizioni – Ravenna
– Il fantasma di Osio (2016) con Arduino Sacco Editore – Roma
– L’altra faccia della musica (2018) con Herkules Books – Policoro
– Ritornano i fantasmi del presente (2017), Nel mistero, fra tenebre e luce (2020) e Incontro con un angelo
(2022) con Editrice GDS.
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Premio Strega 2020: i 12 libri candidati
Ecco i 12 libri candidati per il Premio Strega 2020. La banca BPER assegnerà, per il quarto anno consecutivo, una targa e un premio in denaro del valore di 1000 euro all’autore o all’autrice di uno dei 12 libri in concorso.
Scopriamo qualcosa sui libri scelti per concorrere alla premiazione letteraria.
1. La nuova stagione di Silvia Ballestra
La nuova stagione è un romanzo che racconta la bellezza delle Marche che si intreccia a quella cultura pagana fatta di culti e leggende che sono custoditi, un pò ovunque, nei territori e che ne tracciano anche caratteri distintivi della popolazione di un territorio.
La storia, narrata la sera nelle veglie notturne, col fiato delle bestie e l’odore di ammoniaca che saliva in vapore dai pagliericci alla luce di candele, voleva che nella grotta dentro la montagna che ora mi si parava davanti vivesse una signora che, seduta al telaio, tesseva una trama con raggi di sole filtrati dalle crepe sulle rocce intrappolandoli nel suo ordito. E che nel tessuto di luci e ombre rimanesse impigliato il tempo in disegni e colori diversi, per le donne e per gli uomini, per gli animali e per le piante. E che ogni giorno le tre sorelle della signora indossassero i vestiti ricavati da quei tessuti, nei quali erano fissati i segni dello scorrere delle stagioni e degli eventi. La sorella vestita di bianco portava il vento, quella di rosso e oro portava il caldo di mezzogiorno, la sorella vestita di nero il sonno.
Chi voleva cambiare vita doveva arrivare al telaio, guardare i disegni della stoffa e porre tre domande alla tessitrice, ma non doveva farlo per sé o con il misero intento di arricchirsi e ottenere potere, altrimenti le sorelle lo avrebbero punito: la bianca scaraventandolo sulle rocce con il suo figlio vento, la rossa facendolo bruciare da suo figlio sole, la nera buttandolo nella voragine davanti alla grotta e condannando le sue ossa a mai dormire e a illuminare l’entrata con il suo biancore.
E questa era solo una delle storie su quei monti magici.
Protagoniste del romanzo di Silvia Ballestra sono Nadia e Olga, due sorelle, che cercano di vendere la terra ereditata dal padre. Per scoprire il resto non vi resta che leggere il romanzo.
2. Città sommersa di Marta Barone
La città sommersa di Marta Barone ci parla di una giovane donna che cerca suo padre, morto di cancro quando lei era ancora una ragazza.
Scopriamo qualcosa di più sulla protagonista del romanzo, attraverso le parole della scrittrice:
Sono nata da una donna con un buco in testa. Mia madre aveva avuto un incidente tredici anni prima. Rimasi una settimana sotto osservazione perché ero in astinenza dagli antiepilettici che lei era ancora costretta a prendere. Dell’incidente, del coma, delle operazioni le è rimasto soltanto un lieve avvallamento nel punto in cui manca un frammento di cranio, sostituito da una rete di metallo coperta poi nel tempo dai suoi capelli fini, di piuma. Dorme sempre dall’altro lato, perché le fa ancora male la testa che non c’è.
Si può dire che da quel buco bene o male sono scaturita. La mia stessa esistenza dipende dalla ferita, porta aperta sul baratro delle possibilità.
3. Febbre di Jonathan Bazzi
Febbre è un romanzo che mostra un tempo nuovo composto da contaminazione lessicale della lingua di periferia, che mescola milanese, napoletano, pugliese e siciliano. Il protagonista inventa una sua identità su internet che gli consente di poter essere tutto ciò che vuole.
4. La misura del tempo di Gianrico Carofiglio
La misura del tempo ci racconta di un vecchio amore che, all’improvviso, compare nella vita di un avvocato. La donna, infatti, si reca da lui per chiedergli di difendere suo figlio, imputato di omicidio.
Qualcuno ha scritto che bisognerebbe essere capaci di morire giovani. Non nel senso di morire davvero. Nel senso di smettere di fare quello che fai quando ti accorgi di avere esaurito la voglia di farlo, o le forze; o quando ti accorgi di aver raggiunto i confini del tuo talento, se ne possiedi uno.
Tutto ciò che viene dopo quel confine è ripetizione. Uno dovrebbe essere capace di morire giovane per rimanere vivo, ma non accade quasi mai. Più volte avevo pensato che grazie a quanto avevo guadagnato con la professione, e che avevo speso solo in minima parte, avrei potuto smettere, cedere lo studio e dedicarmi ad altro. Viaggiare, studiare, leggere. Magari provare a scrivere.
Qualunque cosa pur di sfuggire alla presa di quel tempo che scorreva sempre uguale.
Pressoché immobile nel suo reiterarsi quotidiano eppure velocissimo a dissiparsi.
Il tempo accelera con l’età, si dice.
Quel pensiero non era nuovo e quel giorno mi rimbalzava spiacevolmente nella testa.
5. Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari
Protagonista del romanzo di Gian Arturo Ferrari è Ninni, un bambino, che cresce circondato da donne vissute in un’Italia partorita dalla guerra. Ragazzo italiano mostra un’immagine di disgregazione sociale e di solutidine.
Da sempre l’anno per Ninni di divideva in due parti: da metà ottobre a fine maggio a Zane Grate, da fine maggio a metà ottobre a Querciano – con l’aggiunta di alcune settimane intorno al Natale.
Due stagioni, due case, due luci, due voci. Due mondi, due vite.
Arrivando a Querciano, per prima cosa balzava agli occhi di Ninni la testa di Garibaldi, ripetuta infinite volte sui muri intonacati delle case. Stava dentro una stella e il tutto era quasi sempre rosso, ma a volte blu.
“Quando hanno finito il rosso si son dovuti rassegnare e hanno adoperato il blu”, diceva la nonna, spiegando che quello era il simbolo del Fronte popolare e che lo si otteneva passando qualche pennellata di colore su una mascherina sottile di metallo appoggiata al muro.
Pratico, veloce, economico.
“Ma gli è andata male”, concludeva la nonna riferendosi al risultato elettorale. E non senza un segreto piacere, considerato che, nell’imminenza delle elezioni, qualche scalmanato – non il partito, al partì, come veniva chiamato per antonomasia, sempre attento e prudente – si era preso la briga di notificarle a quale albero, e nello specifico a quale ramo di quell’albero, avevano, in caso di vittoria, intenzione di appenderla. La nonna, che da maestra aveva fatto scuola a tutti quelli lì, non si era scomposta, ma non se n’era neanche scordata. Era la capessa delle donne di Azione cattolica, leggeva assiduamente e diffondeva il loro settimanale “In Alto”, nutriva quindi sentimenti battaglieri.
6. Giovanissimi di Alessio Forgione
Protagonista di Giovanissimi è Marocco, un ragazzino di quattordici anni che vive a Soccavo con il padre. Sua madre li ha abbandonati di punto bianco e senza dare spiegazioni: è sparita e questa scomparsa nel ragazziono possiede la stessa forza e intensità di un dolore sordo.
Marocco è una giovane promessa del calcio infatti le sue giornate ruotano intorno agli allenamente invece che sui compiti scolastici. All’improvviso due avvenimenti sconvolgeranno la sua vita, se sia nel bene o nel male lo potrete scoprire solo leggendo il romanzo.
7. Breve storia del mio silenzio di Giuseppe Lupo
Breve storia del mio silenzio è un romanzo autobiografico che racconta le stagioni della vita che hanno caratterizzato l’esistenza di Giuseppe Lupo. Ciascun evento riportato segue il suo tempo e ciò che ne ha custodito la memoria.
I miei genitori si erano conosciuti nell’aula di una scuola elementare, entrambi supplenti, mia madre al primo incarico, mio padre con qualche anno d’esperienza in più. A quell’epoca assomigliava al pugile Cassius Clay, almeno così me l’avrebbe mostrato la fotografia sulla patente: riccio e nero di capelli, taglio a spazzola, il sorriso di chi scommette sulle idee. Era stato eletto sindaco a ventisei anni, in un’epoca in cui i capifamiglia si radunavano in municipio in cerca di impieghi stagionali, chi al rimboschimento, chi all’acquedotto.
Mia madre aveva sentito parlare di questo sindaco dalle donne che frequentavano i corsi di alfabetizzazione popolare, sicché poi, quando se le trovò di fronte, ebbe conferma di quel che dicevano, cioè che si era dato da fare come meglio poteva per aiutare chi si trovava senza lavoro e questo gli era costato la carica di sindaco, perché alla fine, accontenta accontenta, qualcuno resta deluso.
Nessuno dei due corse troppo avanti in materia di sentimenti. I loro discorsi cominciavano e finivano con i libri, tanto che alla fine si trovarono sposati senza essersi dichiarati mai nulla di definitivo.
8. Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli
Tutto chiede salvezza è un romanzo che racconta dell’esperienza personale di Daniele Mencarelli che, quando aveva vent’anni, è stato sottoposto per una settimana al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). Da ciò lo scrittore cerca di analizzare la malattia mentale da un punto di vista umano e non tecnico perché, alcune volte, per evitare di cadere nel baratro profondo della malattia mentale la cura migliore può essere la parola.
Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo.
Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua.
Un poco alla vota ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come unìombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre a me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte.
9. Almarina di Valeria Parrella
Protagonista di Almarina è un’insegnante di matematica, che insegna nel carcere minorile di Nisida. La donna è ingrigita dalla perdita del marito, morto d’infarto da tre anni.
Non era un ospedale qualunque, non lo fu mai più dopo che ci avevo trovato mio marito, morto freddo su un tavolo di metallo, labbra viola, e il viso come se ci avessero passato sopra del talco.
Solo dopo ho cominciato davvero a ricordare nella forma che assumono i ricordi: immagini, e ricostruzione di quello che ci dicemmo, e la sequenza di queste cose. Dopo ho messo in ordine, ma i primi tempi avevo solo un senso di ferro sulle labbra, come se avessi baciato il tavolo mortuario, e non la bocca di Antonio senza più fiato.
Ero arrivata tardi, dopo tutti gli altri, quelli che mi stavano davanti: le sue sorelle soprattutto, decise a detenere da lì in avanti il primato del dolore, cos’ come in passato, per cose più futili, ne avevano detenuto il monopolio. Erano arrivate subito perché portavano il suo stesso cognome e così le avevano rintracciate per prime, e poi mi avevano chiamata, chiamata chiamata, e io non rispondevo, come non risponderò alla maggior parte delle chiamate fondamentali all’esistenza.
Nicola Lagioia riassume così l’ultimo romanzo di Valeria Parrella:
Quanto siamo disposti a metterci in gioco davanti agli altri? Il dolore ci accomuna, la paura trae constantemente il peggio da noi, il senso del dovere può diventare una scusa per andare sempre in giro con la guardia alta. Fino a quando la vita non ci obbliga a scegliere. Almarina racconta tutto questo con un’intensità e una misura ammirevoli, e una forza linguistica rara, segnando una tappa importante nella letteratura italiana di questi anni.
10. Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio scritto da Remo Rapino
Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio racconta la vita di un uomo che non ha mai conosciuto il padre e che ha perso la madre da ragazzino. L’uomo ad ottant’anno decide di scrivere la sua vita personale quella dei suoi abitanti che lo chiamano “cocciamatta”.
Remo Rapino attraverso la vita che descrive Bonfiglio Liborio traccia un’istantanea del’900, soffermandosi su alcuni aspetti di quell’epoca fatta di lavori in fabbriche, povertà, partenze per cercare lavoro al nord, disullusione e senso di riscatto.
Adesso lo so le cose e capisco pure i segni di allora, ma ci sono dovuto passare in mezzo alla tormenta per capire per capire quello che significava acqua e vento e che vuol dire quando parlano del destino che già scritto, ma per imparare a leggere ci vuole tutta la vita e quando te lo sei imparato è troppo tardi e mica si può fare dietro fronte, macché solo avanti marcia, con gli occhi bassi a terra e i piedi che fanno male.
Sì, ogni tanto ti puoi pure voltare e dare una smirciata alle macerie che ti sono crollate intorno, ma giusto per uno sfizio. Che dove sta scritto che per sapere le cose della terra bisogna guardare le nuvole e vedere se sono a forma di cane, di cavallo, di uccello, che quelle poi in cielo cambiano in un amen di colore e si fanno nere, rosse e viola, alte e basse che non sai più manco dove ti trovi.
Così allora mi è venuto alla mente e pure al cuore questo sghiribizzo intricante di raccontare tutto quello che mi è successo da quando sono nato a mò che c’ho più di ottant’anni, certo quello che mi ricordo tra na ripensata e l’altra, che non mi posso ricordare tutti i fatti e i fattarelli.
11. Il colibrì di Sandro Veronesi
Il protagonista de Il colibrì di Sandro Veronesi ha come protagonista il Dott. Marco Carrera, specialista in oculistica e oftamologia, cresciuto a Firenze da genitori architetti che oggi ha quarant’anni e svolge la sua professione nel quartiere di Triste a Roma.
Un giorno nel suo studio si presenta Daniele Carradori, lo spicanalista di Marina Molitor, sua moglie. Lo psicanalista riferirà al medico che la moglie non sta più andando in terapia da lui e che aspetta un figlio da un altro uomo.
Per una serie di incomprensioni Marina si è convinta dell’infedeltà del marito ha intrapreso una relazione extraconiugale con un altro uomo.
Per scoprire il resto non vi resta che leggere il romanzo.
12. L’apprendista di Gian Mario Villaltaù
L’apprendista di Gian Mario Villalta è stato proposto come uno dei docici candidati al Premio Strega 2020 da Franco Buffoni, poeta e traduttore, che descrive così il contenuto del romanzo:
Personaggi autentici della provincia friulana animano questo nuovo romanzo di Gian Mario Villalta in modo nitido e poetico. L’apprendista – mentre pare raccontare la storia di due umili – Tilio e Fredi, riesce in realtà a fare esplodere universi di discorsi storici, sociali e profondamente umani, grazie a uno stile di scrittura elegante e intenso, intimamente sentito. Mentre la trama intesse nei pensieri, nei dialoghi e nei racconti un furibondo intrico di paure e desideri, rimpianti e speranze, capaci di coinvolgere le esistenze degli altri abitanti della piccola comunità.
Per scoprire il vincitore non ci resta che aspettare la premiazione finale prevista per il prossimo 20 aprile. Facciamo un grande in bocca al lupo a tutti i partecipanti!
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Belle di faccia: un romanzo che spiega come ribellarsi a un mondo grassofobico
Belle di faccia è un libro scritto a 4 mani da Chiara Meloni e Mara Mibelli, edito da Mondadori, che spiega alcune tecniche per ribellarsi a un mondo grassofobico.
Da tempo immemore ormai viviamo con target di bellezza più simili ad un mondo immaginario rispetto a quello reale.
Siamo bombardati costantemente da immagini di corpi rifatti, modellati e modificati dai mille trucchi e filtri che permettono di dare un’immagine altra o fasulla. Il corpo perfetto non esiste, il canone estetico perfetto non esiste e non potrebbe esistere perché siamo esseri umani e ciò che ci contraddistingue da sempre è la mutevolezza e l’imperfezione.
Irene Facheris nella sua prefazione al libro scrive presenta le due autrici così:
Chiara Meloni e Mara Mibelli sono passate dall’essere due donne con un corpo costantemente giudicato, che si deridevano da sole pur di evitare le prese in giro altrui e rischiare di stare ancora peggio, al diventare due attiviste con una voce, aprire un’associazione che si occupasse esattamente di questo problema e usare Instagram come piattaforma per fare divulgazione sull’argomento e creare uno spazio che prima non c’era.
Belle di faccia: la recensione
Il libro non è altro che un prolungamento dell’attivismo delle due scrittrici che hanno deciso di non essere accomodanti ma ringhiare tutto ciò che non è accettabile sulla grassofobia.
Ecco come si presentano Chiara Meloni e Mara Mibelli:
Siamo sincere, questo libro e il nostro attivismo non esisterebbero senza una sonora incazzatura che, a un certo punto, è diventata troppo grande e strutturata per rimanere confinata nelle nostre conversazioni telefoniche e nelle nostre app di messaggistica istantanea. Di solito non siamo presuntuose, ma entrambe siamo giunte alla conclusione che questo Frankenstein che avevamo generato con la potenza delle nostre imprecazioni non potesse rimanere confinato tra noi, che bisognasse parlarne con tutte.
…
Siamo due donne cresciute negli anni Novanta e chi ha vissuto quel periodo può capirci: non era un bel momento per essere grasse. Erano gli anni delle super top model, dell’heroin chic, di Kate Moss, e riguardando oggi le nostre foto, non solo perché ora siamo più indulgenti verso noi stesse, non abbiamo potuto fare a meno di notare che non eravamo neanche grasse come ci vedevamo.
Bella di faccia è il primo testo in italiano che ha deciso di occuparsi di grassofobia, fat acceptance e di body positivity. Il libro analizza molti termini e comportamenti che vengono utilizzati per sottolineare come un corpo non sia bello nel complesso.
Quando si specifica che solo il viso è bello, ad esempio, stiamo sottolineando che apprezziamo solo quel particolare estetico di quella persona. Non ci sarebbe nulla di male se normalmente ci esprimessimo con con complimenti del tipo: hai un malleolo bellissimo! o Che splendide nocche hai!
Belle di faccia ci porta a pensare non solo ai classici stereotipi sociali ma anche al marketing inverso perché oggi esistono brand che sponsorizzano le over size o curvy e che incentrano campagne pubblicitarie rivolte a determinati target.
Il libro scardina diversi stereotipi e modalità di pensiero poco sincere e trasparenti. Vi consigliamo di leggerlo per avere maggiore consapevolezza dei meccanismi sbagliati che ci risucchiano quotidianamente.
Se siete interessati a letture che vanno a demolire il linguaggio e le crepe della società in cui viviamo vi consigliamo la lettura di E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie.
Buona lettura!
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Licenziare degli Elettrojoyce: l’alienazione vista come una salvezza
Cosa ci insegna una canzone quando siamo certi di averla individuata come fonte d’ispirazione dei nostri pensieri più reconditi? Qual è la reazione che ci spinge a pensare che ciò per cui siamo nati e cresciuti non possa coesistere col pensiero comune, quello vincolato in maniera troppo forzata?
Vent’anni fa, nel 1999, una rock band romana, gli Elettrojoyce, pubblicano per la prima volta con la Epic (Sony Music) la loro definitiva versione dell’interazione di un pensiero, che forse trae in inganno, se comparato all’azione ludica che un brano punk può ispirare, proprio perché siamo certi che stiamo per rilassarci in un ascolto e non stiamo allargando gli orizzonti alla crescita sociale.
Niente di più sbagliato.
Capire quanto sia importante la comprensione sta esattamente nell’azione che una linea melodica (non necessariamente sempre accoppiata con un testo) può, nel momento dell’ascolto, farci aprire a nuove condotte di pensiero, che forse non risultano sempre tangibili con le materie umanistiche studiate a scuole, né con l’induzione che ha un nucleo familiare su un soggetto più propenso ad una fuga più morale che prossima.
Il branoLicenziare degli Elettrojoyce esce per la prima volta, come singolo, nel 1998, suggella il loro rapporto con un’etichetta major e anticipa il secondo album della band romana, Elettrojoyce (2°), del 1999.
Il gruppo, capitanato da Filippo Gatti (oggi ancora musicista e autore all’attivo), voce e basso, ha un ruolo fondamentale nell’elevazione di una musica colta che si cela negli ascolti forse più scontati. La musica d’autore già in quel periodo va scemando, e il commercio che deriva da un introito guidato da un discutibile pensiero unilaterale guida una comunità di ragazzi a concentrarsi sulla scia del momento, a farsi coinvolgere da nulla di troppo coinvolgente, da un accumulo di oggetti di uso comune con scadenza prossima.
Nel 1999 il vecchio secolo e il vecchio millennio stanno per terminare, e la paura che tutto troppo presto non possa più funzionare incombe sulla capacità (o forse sull’incapacità) di poter coesistere con una pagina nuova, con una parentesi che inizia tale, poi diventa periodo. Nessuno, forse, sa che stiamo per affacciarci alla resa definitiva delle nostre pretese esistenziali, e tutti, nel frattempo, erroneamente, cadiamo nella matematica certezza che giungerà qualcosa di nuovo, di inaspettato, così come sia ovvio che dopo uno 0 ci sia il numero 1.
I calcoli non erano troppo sbagliati, in effetti, se riuscissimo solo un momento a guardarci indietro e a capire quante sostanziali differenze possano esistere rispetto ad un ventennio fa, quando ( ad esempio) ciò che state leggendo in questo istante non sarebbe stato alla portata di un click in qualsiasi posto vi sareste trovati con una connessione internet wi fi sufficiente, e con uno smartphone. Gli ascolti musicali, i più influenti, di quel periodo combaciano alla perfezione con la decadenza complessiva che avrebbe condizionato le persone che, oggi, si considerano adulte e guidano i servizi, i pensieri e i partiti politici, e indirizzano i propri figli all’ibernazione morale, culturale, stimolante, reazionaria che una cultura personale può regalare, in un mondo dove “regalo” significa sempre un interscambio economico, o una prestazione da restituire con interessi.
Nel 1999 gli Elettrojoyce capiscono che qualcosa nell’equilibrio di un’autenticità sta per spezzarsi, e scrivono un testo che sa dell’incredibile, una poesia semplice che invita ad una scelta forse più complicata, più estrema ma giustificabile:
prendimi la mano
usciamo dal vagone in corsa
vite cancellate da un’oscillazione in borsa
ho sentito i nostri battiti del cuore accelerare
meglio che restare intrappolati nella foto ad invecchiare
Colui che parla, in questo testo, è un soggetto che s’impegna a far rimarginare ferite inferte dal tempo che non s’arresta, che corre imperterrito, e che detta le leggi che secondo i suoi esecutori, gli individui cloni che lo circondano, sono alla base di una convivenza forzata, dove la capacità che può pervenire da un tentennamento dei mercati può trascinarci in un vortice di pessimismo collettivo.
Eppure basta soffermarsi, darsi del tempo, lasciare che i nostri ritmi non marcino necessariamente all’unisono con tutto il resto, perché è proprio quando il nostro cuore che accelera i battiti, scaturiti da un’emozione, che si ha più capacità di sentire il suo tumulto emergere dal caos circostante. Una sorta di foto che ci ritrae identifica nei solchi della nostra pelle la cadenza del tempo così come ci viene dettato, e in tali linee si demarcano, alla stessa maniera, obbligatori cambi di direzione, così come quest’ultima sta ad indicare a seconda delle esigenze, il vecchiume che contrae le grinze sul nostro Dorian Gray peccaminoso e corrotto, intrappolato nel suo ritratto, mentre il suo avatar corre sotto dettatura.
Cambia forma il male
cambia nome
cambia di colore
pensa sempre al resto
mentre chiudi gli occhi
e salti, amore e ogni giorno si allontana
mentre noi dimentichiamo
non avere mai paura
mentre andiamo
Il nostro protagonista ha trovato un’affinità elettiva con colei che lo seguirà in questa alienazione curativa, quindi le dà coraggio, la incita a intraprendere il grande salto, ad affrontare la grande sfida che condurrà entrambi all’olimpo dell’individualità, dell’originalità. Le malvagità cambiano identità a seconda dei suoi coordinatori; i loro portavoce a doppio petto incitano all’obbligo e alla disciplina, mentre essi stessi, dal loro canto, infrangono di nascosto le regole, come in 1984 di George Orwell. Per questo il nostro uomo vuole inimicarsi i vari ministeri; vuole superare concetti che questi ultimi dettano, le regole che vengono fatte rispettare dalla “psicopolizia”. La paura alimenterebbe soltanto il pretesto di una persecuzione, e scacciarla via è solo il primo passo verso un concreto successo dell’ammutinamento, e della successiva alienazione.
In quello stesso anno i Bluvertigo pubblicano l’album Zero, e la qualità che vi si enuncia è la stessa. Anzi, nel caso del gruppo di Morgan e soci la produzione volge già alla garanzia di una prestanza che mette sicurezza e ci prepara al nuovo millennio, e l’elettronica, che corre sul binario parallelo di un’esecuzione ancora suonata con strumenti, sembra voglia convivere con qualcosa di superato, un po’ come restare sospesi a mezz’aria tra un ciglio e l’altro di un dirupo.
Gli Elettrojoyce, dal loro canto, ed in questa canzone, restano affezionati al filone rock che più sconvolse i canoni di fine millennio. Ricordiamoci che la scena musicale italiana di quel genere aveva vissuto momenti felici in quel decennio stesso, e basterebbe citare i Timoria, i Marlene Kunz, Movida, etc.
Oggi non esistono più, e di certo anche noi domani dovremo cedere il posto, ma appunto per questo, la nostra eredità sarà più preziosa se legata ad una lezione ai nostri posteri, ad una preparazione che possa consistere nel rispetto della propria linea d’ombra e coesistere con quelle altrui, seppur non combaciando alla perfezione, ma trovando i punti di sutura necessari a crearne una immensa che possa oscurare ostacoli collocati da chi è sullo scranno del potere da duemila anni.
Carmine Maffei