Ritorna un nuovo appuntamento di Dante per tutti al Castello d’Aquino caffè letterario di Grottaminarda. questa volta verrà introdotto e spiegato il XIII Canto dell’Inferno che ha come protagonista Pier delle Vigne.
La lettura e il commento del Canto dantesco verranno introdotti dalla leggenda del diavolo messo in fuga da un monaco. Per poter facilitare la fruizione e la comprensione verranno proiettati i testi e le opere d’arte.
L’appuntamento con Dante per tutti è previsto per il 14 ottobre alle ore 20:00, il costo del biglietto è di 5.00 euro ed è obbligatoria la prenotazione contattando il seguente numero telefonico: 334 947 46 73.
Canto XIII Pier delle Vigne: breve introduzione della serata al Castello d’Aquino caffè letterario di Grottaminarda
Il Canto XIII ci conduce nel VII cerchio dell’Inferno dove sono puniti i violenti, coloro che furono violenti con se stessi, togliendosi la vita. Il luogo in cui si trovano Dante e Virgilio non ha sentieri e la natura è arida, come l’animo di chi vive questi luoghi. Le piante sono scure e senza frutti perché ci troviamo in un posto il cui la vita non è contemplata. Sui rami delle piante ci sono spine avvelenate dove fanno il nido le arpie, creature mostruose che hanno il viso umano e il corpo di un uccello e il loro suono è un sinistro lamento.
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.
…
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
pié con artigli, e pennuto ‘l gran ventre;
e fanno lamenti in su li alberi strani.
Dante si accosta a Pier della Vigne per più di una ragione: non solo perché la molla segreta che spinse Pier delle Vigne al suicidio appariva a Dante un fatto su cui bisogna indagare ma anche, e soprattutto, per le affinità esistenti fra i due poeti. Entrambi si sono formati alla stessa scuola e tutti e due sono intellettuali politicamente impegnati e entrambi hanno subìto una condanna.
Per scoprire il resto non vi resta che partecipare a Dante per tutti prenotando al Castello d’Aquino caffè letterario di Grottaminarda.
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EXPAND: il nuovo EP di Reborn
Animo rock’n’roll, penna camaleontica e vocalità intrisa di energia e carattere sono i tratti distintivi di Reborn, giovanissimo cantautore campano con l’attitude d’Oltreoceano, che dopo un concept in free download e tre singoli rilasciati sui principali digital store, torna a scuotere menti e coscienze con “EXPAND”, il suo nuovo EP.
Un travolgente up to date di stile e concetti, da cui si evince l’urgenza comunicativa di un artista che, attraverso una scrittura fortemente intima e personale, ma al contempo capace di cogliere, interiorizzare e conseguentemente riflettere e raccontare il mondo al di fuori da sé, narra, con l’ardente vigore del rock, accarezzato dalla carica dell’elettronica e dallo stupore della sperimentazione, due anni di pandemia immortalati dallo sguardo di un ventenne.
Uno sguardo provato e privato del luccichio della speranza e dell’entusiasmo tipico della giovinezza da un periodo che ha messo in ginocchio il mondo intero; uno sguardo per troppo tempo costretto a catturare sconforto, desolazione e frustrazione, osservandole in una sequenza di scatti, nitidamente vitrei, che fotografano una condizione di incredulità e sbigottimento che ha portato ad una sempre più crescente incidenza di disturbi psichici, psicologici e psicofisici.
Cinque tracce per descrivere in cinque differenti mood le sfumature dell’animo, supportate da potentissime sonorità elettro-rock miscelate ad atmosfere psichedeliche che ben rappresentano la rivolta interiore di una generazione costretta a fare i conti non soltanto con le problematiche connaturate nel processo di crescita, ma anche con quesiti a cui nessuno può e sa rispondere; domande e dubbi che gravano ulteriormente su una condizione di imprevedibilità e incertezza, compromettendo una stabilità già di per sé fragile e vacillante.
L’esigenza e il desiderio di far sentire la propria opinione e di trasmettere, ad un pubblico sempre più vasto e variegato, il chiaro e fondamentale messaggio che nessuno è mai realmente solo. Un intreccio di pensieri, sensazioni e paure, un connubio di emozioni che si scindono per poi tornare a fondersi, evidenziando l’essenzialità della collisione con se stessi per il raggiungimento di un benessere solido e autentico.
Ed è nel sussulto provocato da scosse sonore impetuose e travolgenti che Reborn indirizza il flusso della sua coscienza, con l’intento di scuotere e svegliare quelle dei suoi ascoltatori, in una dimensione transitoria volta a confortare, per attivare lo switch necessario atto a riprendere in mano la propria vita, passando da inermi spettatori a protagonisti attivi e consapevoli.
Un incalzante susseguirsi di riflessioni, incoraggiamenti e contestazioni sociali, come ben si evince in “Session N 1”, traccia conclusiva dell’EP, che, attraverso un bass pattern statico e una cassa acustica dritta a far da sfondo alla voce di Reborn volutamente distorta, “fuzzata”, sottolinea l’incremento delle vendite di farmaci antidepressivi e antipsicotici durante gli ultimi 24 mesi, puntualizzando sulla mancanza di tutela, soprattutto nei confronti dei giovani, da parte dello Stato e della collettività – «My life has been so boring since. I listen to your lecture on my flaws with your pesky voice tone» («La mia vita è stata così noiosa da allora. Ascolto la tua lezione sui miei difetti con il tuo tono di voce fastidioso») -.
“Intro”, “Junk”, “Head” e “Spun”, gli altri 4 atti dell’opera, ruotano tutti intorno a “Session N 1”, avvalorando lo spessore artistico di un progetto nato per rasserenare, risollevando la mente dai nidi intricati della malinconia, della collera e dell’isolamento e l’anima dalle catene dell’afflizione e della solitudine.
EXPAND: Il disco raccontato dall’artista
“Intro”, pur essendo la traccia iniziale, è stata scritta per ultima ed indica proprio il periodo di ripresa e ricostruzione mentale del protagonista, che consiglia, ai suoi cari e non, di salvaguardare lo stato psicologico e rafforzare la propria autostima. In poche parole: se non sei il primo a credere in quello che fai, ti costruisci la fossa da solo.
“Junk” ed “Head” parlano di aspetti più amorosi e polemici, i quali, sovrastandosi tra loro, creano automaticamente una compilation di ricordi positivi e negativi delle relazioni che il protagonista ha vissuto, regalando così un mix di emozioni.
“Spun” è forse la seconda canzone più importante dell’EP, dopo “Session N 1”. Il testo è breve e il pezzo si posa su sonorità sperimentali, richiamando alcuni periodi complessi trascorsi del protagonista. In questo caso, vuole fare affidamento alla sua “wheel of fortune” (ruota della fortuna), per rimettersi in carreggiata e affrontare nuovi ostacoli, come ha sempre fatto in passato.
“Session N 1” è la traccia più “punk”, più sfrontata del disco e al contempo quella più importante. È su di lei che è concentrato il valore concettuale dell’intero progetto, con la speranza che possa giungere al pubblico come un ritratto sincero del periodo attuale, specialmente dal punto di vista di noi ragazzi.
Reborn: biografia
Reborn, pseudonimo di Renato Valentino, è un cantautore e musicista italiano nato ad Avellino nel 1999. A soli 11 anni, getta le basi del suo percorso artistico intraprendendo lo studio della chitarra e, poco dopo, formandosi in canto, basso e batteria. Nel 2016 dà il via all’esperienza live con la cover band Nucio’s, collettivo che fonde grunge, hard rock e rap Old School. L’anno successivo, pubblica “Murder in Town”, il suo primo singolo, apripista dell’EP “Drawing the Starry Sky”, rilasciato in free download pochi mesi più in là.
Nel 2018 è il turno di “Don’t Know if This Is the Right Title” e “Fine tonight”, due release che gli consentono di raggiungere un pubblico sempre più vasto e variegato e di arrivare, nel 2021, alla pubblicazione di “EXPAND”, il suo secondo EP, composto da cinque tracce che narrano in cinque diversi mood le sue esperienze di vita, i suoi pensieri e le difficoltà riscontrate, soprattutto dai giovani, durante il periodo di pandemia che ha messo in ginocchio il mondo.
Il progetto, nato per rasserenare, risollevando la mente dai nidi intricati della frustrazione, della collera e dell’isolamento e l’anima dalle catene dell’afflizione e della solitudine, evidenzia la poliedricità autorale e stilistica di Reborn, consacrandolo ufficialmente alla scena italiana come uno dei migliori esponenti del nuovo firmamento elettro-rock nazionale.
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“5×7 – Il paese in una scatola”,
il docufilm che racconta Lacedonia attraverso gli scatti di Frank CancianMi ricordo che arrivando dalla strada del mercato mi fermarono degli uomini e mi chiesero: “Che stai facendo qui?”
E ci parlai. Dissi che ero uno studente, volevo conoscere la cultura e fare fotografie.
E dissero: “Ah ok”.
Parte così “5×7 – Il paese in una scatola“, il documentario che il regista Michele Citoni dedica alla storia di Frank Cancian e alle sue 1801 foto di Lacedonia, di recente esposte al Museo delle Civiltà di Roma.
La storia del professore di antropologia ormai in pensione riprende lì dove si era interrotta sessant’anni prima e le sue foto, conservate al Museo Antropologico Visivo Irpino di Lacedonia, trovano nuova vita nella pellicola del regista romano in cui si raccontano episodi di ordinaria quotidianità e viene rappresentato un mondo, quello del dopoguerra, e una tradizione, quella contadina, che ancorchè superati resistono nell’immaginario comune.
Nel documentario si racconta la storia che lega l’americano Frank Cancian al borgo dell’Alta Irpinia. Una storia che parte da lontano.
Frank Cancian
Fotografo per passione, antropologo per professione, il giovane Frank Cancian arriva in Italia nel 1957 dopo aver vinto una borsa di studio all’università e quasi per caso scopre l’Irpinia e si ferma a Lacedonia. Cancian trova nel borgo rurale dell’Alta Irpinia il posto ideale per le sue ricerche e vi resta per sette mesi durante i quali immortala gli usi e i costumi della società contadina del tempo.
E il filo dei ricordi si riannoda alle persone e ai luoghi, trascinando con sé alcune riflessioni essenziali sul modo in cui la fotografia possa farsi sguardo etnografico sulle piccole comunità. I suoi scatti su Lacedonia, molti dei quali conservati nel Museo Antropologico Visivo Irpino, rappresentano un patrimonio etnografico inestimabile sulle comunità del Sud. E grazie al docufilm “5×7 – Il paese in una scatola” stanno pian piano uscendo dai confini locali per aprirsi a una più ampia diffusione negli ambienti del cinema italiano.
Festival e Premi
Il film, che si avvale del montaggio di Roberto Mencherini e delle musiche dell’irpino Pasquale Innarella e dei napoletani KuNa, è stato appena premiato alla 7a Edizone del Vittoria Peace Film Fest per aver «raccontato con stile sobrio un mondo che non esiste più, facendo ritrovare il senso dell’identità a una comunità attraverso gli straordinari scatti in bianco e nero di Frank Cancian».
Al premio ottenuto in questi giorni si aggiungono altri numerosi riconoscimenti e menzioni speciali:
– Laceno d’Oro / Festival internazionale del cinema (rassegna Spazio Campania), Avellino, 2018
– Rome Independent Film Awards (concorso Documentari), Roma, 2019
– Under the Stars International Film Festival (concorso Documentari), Bari, 2019
– EtnofilmFest (concorso), Monselice (Pd), 2019 – MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA
– MonFilmFest / Vetrina di un film di mezza estate (concorso), Casale Monferrato (Al), 2019 – PREMIO DELLA DIREZIONE DEL FESTIVAL
– Film Festival della Lessinia (rassegna Montagne Italiane), Bosco Chiesanuova (Vr), 2019
– Sguardi sui territori / Visual Anthropology and Ecomuseums (rassegna), Gemona del Friuli (Ud), 2019
– Napoli Film Festival (concorso SchemoNapoli Doc), Napoli, 2019
– Move Cine Arte Festival (concorso), San Paolo del Brasile-Venezia-Parigi, 2019
– Mònde / Festa del Cinema sui Cammini (concorso Lungometraggi di documentario), Monte Sant’Angelo (Fg), 2019
– Cortodino Film Festival Dino De Laurentiis (concorso), Torre Annunziata (Na), 2019
– Vittoria Peace Film Fest (concorso Documentari), Vittoria (Rg), 2019
– International Film Fest Roma Film Corto / Independent Cinema (rassegna Percorsi Visivi), Roma, 2019Il documentario, inoltre, è in concorso alla 9a Edizione Intima Lente/Intimate Lens Festival of Visual Ethnography, appuntamento cinematografico dedicato all’antropologia visuale, dove “5×7 – il paese in una scatola” è stato selezionato, tra più di 3.000 opere pervenute, per la finale che si terrà a Caserta nelle prossime settimane.
Buona visone del trailer!
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Morrison Hotel: storia di uno scatto cinquantennale
Gennaio 1970.
Per di qua, ragazzi. Ci siamo quasi…
La band seguiva quel tipo alto, biondo ed occhialuto, il tastierista, tra strade semisconosciute di Venice Beach, quello stesso luogo dove cinque anni prima, sulla spiaggia, era iniziato tutto.
Ray Manzarek lì vi aveva incontrato Jim Morrison, il suo compagno di studi all’UCLA e insieme avevano dato vita a qualcosa di strabiliante; una nuova parentesi musicale che avrebbe abbracciato la filosofia di Nietszche con le poesie di Rimbaud, un libro di Aldous Huxley, Le porte della percezione, con il richiamo obbligato a William Blake: i Doors, signore e signori.
Ora, quasi cinque anni dopo, ormai famosi, eccoli riuniti per un servizio fotografico organizzato all’ultimo minuto.
Perché tanta tempestività?
Da qualche giorno Jim Morrison aveva tagliato la foltissima barba che portava da più di un anno. Questo in seguito a degli scatti promozionali per una rivista patinata, che lo ritraevano di nuovo ben rasato mentre indossava abiti sgargianti e di dubbio gusto, insieme ad altri modelli di bellezza androgina tutti intorno e infine con lei, Pamela Courson, sua compagna e musa, oltre che proprietaria della boutique Themis. Un investimento davvero esagerato, affrontato grazie alle royalties degli album precedenti dei Doors.
Per la sua ragazza Jim Morrison non aveva badato a spese nemmeno per quanto riguardava una casa, con tanto di Porsche parcheggiata nel vialetto, mentre lui viveva senza fissa dimora, saltellando tra un hotel e l’altro, tutti d’infimo ordine.
Aveva fatto crescere la barba innanzitutto per uccidere l’emblema di sex symbol che gli avevano cucito addosso, oltre che per somigliare sempre più al poeta a tempo pieno che desiderava diventare.
In più nell’ultimo anno, in seguito ad un esaurimento nervoso e al forte alcolismo, aveva messo su qualche chilo, situazione che sommata al rifiuto di radersi, infastidiva a dir poco gli altri ragazzi della band, che proprio per questo motivo da tempo si erano rifiutati tutti insieme per una session fotografica. Solo che Jim Morrison, dal suo canto, per Pamela Courson non solo avrebbe tagliato la barba, o sarebbe volato dall’altra parte dell’oceano, ma si sarebbe addirittura esposto di nuovo ai flash, come la rock star intrisa di sesso che era stata tre anni prima.
Accortisi della novità, dunque, gli altri membri dei Doors avevano presto pensato ad un servizio fotografico promozionale per l’album che sarebbe uscito un mese dopo, e bisognava far presto, dunque, prima che la barba ricomparisse di nuovo sul volto del loro cantante dannato.
“Ci siamo” dichiarò Ray Manzarek mentre sostava di fronte a ciò che sembrava l’ingresso di un hotel.
Jim Morrison, Robby Krieger e John Densmore, insieme al fotografo Henry Diltz, sostarono a lungo alle spalle dell’amico dal caschetto biondo, il quale indicava con un sorrisetto ironico e saccente il luogo dove si sarebbe descritta gran parte della storia di quell’anno, dove tutta la filosofia del poco tempo che sarebbe rimasto per le loro creazioni si sarebbe fossilizzata in uno scatto simbolico e decisivo. Una vetrina abbastanza grande sulla sinistra su cui campeggiava la scritta Morrison Hotel, e a destra un ingresso alquanto trionfale, nonostante lo squallore generico che quel luogo terribile ispirava; un albergo che costava due dollari e mezzo e notte, fatiscente e lugubre.
La band però sembrava entusiasta dell’idea e Henry Diltz li immortalò dapprima sotto il piccolo porticato che antecedeva l’ingresso; poi i Doors varcarono la soglia che si aprì con un tintinnio familiare ed entrarono nella hall, subito sulla sinistra, posizionandosi al di sotto della scritta, ognuno prendendo il suo posto, un po’ a caso, mentre il fotografo restava in strada, cercando di ritrarli e valutando le luci della sera che presto sarebbe sopraggiunta, e con essa i riflessi nel vetro dei fanali delle automobili che circolavano. Ma niente da fare. Il titolare dell’albergo, un tipo losco e burbero, senza troppe scuse mandò i ragazzi a farsi un giro: niente foto nel suo hotel, neanche a pensarci, gente.
Tra una scusa e l’altra i nostri intanto perdevano tempo, ordinando magari un drink, sostando nei pressi del luogo agognato, davanti alla vetrina della hall, ma mai allontanandosi.
Il momento propizio avvenne quando il direttore si allontanò un attimo per un impegno improvviso. Ci volle uno sguardo d’intesa tra tutti quegli amici un po’ brilli, e successe tutto in un attimo: Henry Diltz balzò di nuovo in strada, mentre i Doors, con un Jim Morrison volutamente posizionato al centro con camicia bianca che rifletteva il pallore del viso, e uno sguardo vacuo, ripresero lesti i posti che erano stati loro assegnati qualche minuto prima di essere interrotti. Restava poco tempo a disposizione e bisognava far presto: la luce, già scarsa quel pallido giorno d’inverno di cinquant’anni fa, sarebbe del tutto scemata in una manciata di minuti. Inclinato appena sulla sua destra, Robby Krieger è in piedi alle spalle di Jim Morrison, quest’ultimo seduto su un tavolino, mentre Ray Manzarek e John Densmore accomodati in poltrona, ai lati del loro carismatico e quasi sempre alticcio cantante, il primo un po’ più composto e girato di lato mentre guarda l’obiettivo, il secondo in ginocchio sul sedile e gli avambracci posati sulla spalliera, il mento quasi a toccare le mani congiunte. Quando il direttore tornò quei capelloni erano già belli lontani, con un tesoro che avrebbe fatto storia nelle istantanee rock, al sicuro nella macchina fotografica.
L’album che uscì un mese dopo, il 9 febbraio 1970, avrebbero dovuto intitolarlo Hard Rock Cafè, ma fu quello scatto organizzato in pochi minuti, che cambiò i connotati al lavoro. Morrison Hotel vendette in poche settimane mezzo milione di dischi, e quel nome all’album che ricordava senza dubbio il cantante, fu come un omaggio a Jim Morrison, che abbandonata per un attimo la sua crisi esistenziale, si era rimesso di nuovo sul serio a lavoro per la stesura delle nuove canzoni e per affrontare le nuove date.
Esistono delle riprese di quel pallido pomeriggio a Venice Beach, girate dallo stesso Henry Diltz, poco prima di arrivare al Morrison Hotel.
Jim Morrison (che beve da un fiaschetto di non so cosa) e soci passeggiano sulla spiaggia, poi il cantante sale su un’altalena per un giro mozzafiato, infine risale la spiaggia e si ferma davanti ad un muretto su cui campeggia una scritta: ERBA.
Carmine Maffei
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