Sì, sono d’accordo quando tutti tendiamo a blaterare le solite accuse nell’istante in cui un vecchio lupo torna a farsi vivo dalla sua tana, anch’essa un pò sghemba.
Ripensiamo all’assurda leggenda che spesso sarebbe meglio bruciare tutto e subito e, magari, lasciare ai posteri la testimonianza di chi ha visto allumare la vita di un uomo ancor giovane e talentuoso con la stessa velocità di un cerino.
Assurdità figlie di falsi miti e occidentalismi che si fingono estremismi d’affetto.
Ozzy Osbourne, con Ordinary Man (Epic-Sony Music), ha sentenziato la sua potenza emotiva e la sua verve classica nelle parole soavi di un poema che abbraccia la misura più sentimentale che avrebbe potuto elargire. E l’età conta. Certo che conta, perché non dimentichiamo che con l’età la mente di un uomo che ha realmente vissuto, prende esempio dal suo stesso esempio, e ha uno scenario dietro di sé così ricco –di pregi quanto di insormontabili errori- che alla fine non può che raccontarsi e smembrare palmo a palmo una storia da ricucire infine nel testamento più colorito che possa esistere, con i lasciti che hanno il sapore di ciò che non si è mai lasciato indietro, con un leggero retrogusto di risentimento.
E non azzardiamoci a osannare questo superbo disco come davvero un testamento perché il senso di questo termine proviene in questa occasione dalla presa di coscienza di un uomo che ha raggiunto quella maturità, ebbene tardiva, nell’apprendere che è giunta l’ora di raccontare di sé con la riuscita di un obiettivo: il ritratto della perseveranza di una promessa non sempre mantenuta.
È il ricongiungersi con la vita nonostante si ha come l’idea, con un ascolto distratto, di subirne l’effetto contrario.
In cosa consisterebbe, secondo la stampa musicale mondiale, l’arrendevolezza di un’artista infuocato come Ozzy Osbourne? Sarebbe per caso la resa di un uomo la testimonianza di un lavoro così esaltante, che grida all’impazzata un autentico ritorno agli antichi fasti, questa volta arricchitisi con gli ornamenti della saggezza di un uomo vissuto, e in tutti i sensi?
Non scherziamo. Se soltanto tornassimo indietro di qualche anno, Blackstar, l’ultima testimonianza di David Bowie ci sembrava un miracolo avanguardistico, di una potenza inaudita,e di un’originalità inusuale…e poi dopo un paio di giorni, alla sua morte, ne abbiamo colto il senso drammatico. Non dimentichiamoci che Robert Smith, voce e emblema dei Cure, a quarant’anni scrisse l’epitaffio della sua carriera musicale, esperto kafkiano qual è, ma poi il viaggio continuò eccome!
A proposito di letteratura, di poesia e di opere che raccontano una fine imminente, il grande Arthur Rimbaud, ad appena diciannove anni, scrisse ciò che si potrebbe definire la sua opera più completa, la sua testimonianza di maturità, che odora di resa e di morte, quest’ultima intesa però come animo più oscuro dell’uomo nella società moderna: Una Stagione all’Inferno.
Detto ciò non è scontato che un uomo dalla profondità esemplare possa arrivare sempre precocemente alla presa di coscienza della funzionalità del suo ruolo nella società, attraverso la formazione che gli è stata dapprima imposta, e che poi è diventata la sua dottrina attraverso cui ne ha distorto le regole, con gli eccessi e i vizi, uccidendone così le esternazioni che invece avrebbe dovuto elargire se avvezzo soltanto alla lucidità.
Arthur Rimbaud morì ad appena trentasette anni, quando aveva invece descritto tutta la sua filosofia in un’età sicuramente più imprevedibile per un pensiero simile, testamento a posteriori che oggi viene ancora valutato dalla critica come la testimonianza della crisi dell’uomo moderno.
Ordinary Man: recensione
E Ozzy Osbourne cosa ha descritto in Ordinary Man?
Con la traccia che apre il disco, Straight to Hell, ha esposto il pensiero rimbaudiano già ancor prima che si entri nel cuore stesso dell’opera.
Scrive Davide Rondoni, nella prefazione all’edizione BUR:
L’inferno rimbaudiano è una situazione dove si sa che esiste altrove un destino di felicità e tuttavia manca la chiave, la via (la verità in anima e corpo) che a esso conduce. Solo che è un inferno in terra. È l’inferno delle utopie.
Così come ci canta Ozzy Osbourne in questa traccia:
Stai volando più in alto di un aquilone stanotte
hai toccato la vetta e ti senti bene per questo
che la tua danza sia la morte che dovremmo celebrare
ti farò urlare e ti farò defecare
dritto fino all’inferno stanotte.
La curiosità sta nel comprendere la sinuosa impressione che la tematica dell’album rispecchi a pieno la filosofia del poeta francese.
Ecco come si apre Una Stagione all’Inferno:
Un tempo, se mi ricordo bene, la mia vita era una festa ove si aprivano tutti i cuori e tutti i vini scorrevano.
Così nella seconda canzone, All my life, ecco cosa ci viene descritto:
Stavo lì ad oscillare sull’orlo
Rimirandomi il bicchiere tra le mani…
In Goodbye, che sembra voglia emulare l’Adieu rimbaudiano compreso in Una Stagione all’Inferno:
Ricordi scuri, ricordi scuri
Mi destano di notte
e tu mi lasci incompleto
perché sei sempre nel giusto
e non potrai mai cambiarmi..
Come quando Arthur Rimbaud ci narra:
Tutti i ricordi immondi si cancellano. I miei ultimi rimpianti sfumano (…) basta cantici: tenere il passo. Dura notte!
Il singolo Ordinary Man, title track che impazza in radio, con le dovute motivazioni, è di sicuro una delle ballad più sentite della carriera dell’ex Black Sabbath, con la straordinaria partecipazione di Elton John, che si immedesima negli eccessi dell’amico, che allo stesso tempo ne tastano i suoi stessi ricordi:
Non dimenticarmi mentre si attenuano i colori
Quando le luci sfumano non resta che un posto vacante…
Una delle canzoni più struggenti, uscita come singolo nel novembre 2019, è di sicuro Under the Graveyard, il cui videoclip, addirittura più commovente della traccia stessa, non è altro che un cortometraggio, con tanto di attori ( Jack Kilmer, figlio di Val Kilmer, interpreta Ozzy Osbourne nel pieno degli eccessi, appena licenziato dai Black Sabbath).
La meta sembra sempre vicina per tutta la durata dell’album, e spesso tale dirittura d’arrivo è incentrata in un sepolcro, quando appena un passo indietro si potevano incontrare le esplosioni di vita e le ammalianti conquiste da rockstar, che non sono che l’accelerazione verso la stessa fine, che odora di rimorsi e che ricalca le sue ombre, che si immedesimano nella più buia contemplazione di sè stessi.
Arthur Rimbaud:
Mi sono ingannato? Per me la carità sarà sorella della morte?
Infine chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna.
E avanti…
E in Eat me, Ozzy Osbourne ricalca quasi con lo stesso tono:
Salvami, seppur sul tardi
non ho limiti di scadenza
il mio sangue mai tasterà la vecchiaia
quindi nutriti di me adesso…
E anche se in Holy for Tonight, altra traccia toccante per le tematiche dal gusto dark, si enuncia all’arrivo di una lunga notte, “la più lunga della mia vita”, si tocca con mano davvero la consapevolezza di un arrivo, che forse nel suo impreciso momento significa l’inizio di una nuova partenza, questa volta col bagaglio della consapevolezza di un essere rinato nello spirito, che ha rivisto la sua vita con la saggezza di un’età avanzata.
L’uomo moderno, essere perennemente immaturo, conserva spesso una coscienza che subentra come se nell’attimo stesso in cui lo coglie impreparato, pare voglia coincidere con una lunga parentesi buia, che sembra adocchi alla persecuzione della morte.
Ordinary Man è un disco che merita applausi, che non cede nella drammaticità emotiva delle parole, mai come in questo caso, che alludono alle condizioni difficili che hanno interessato il cantante negli ultimi due anni, e che pongono, per una strana coincidenza, tutti noialtri in questi momenti che stiamo vivendo con ansia, un ragionamento sull’incapacità dell’uomo dinanzi la coscienza di un disastro, un conflitto, una guerra che conserverà cicatrici seppur sarà vinta.
Ordinary Man è la considerazione di Arthur Rimbaud su pentagramma che sfida ogni illusione umana, che abbatte certezze sociali, etiche e religiose, che si fa scudo con l’eterna forzata consapevolezza della musica impressa nell’uomo ordinario.
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