C’era una volta a Hollywood: la timida confessione di un regista geniale
Non ci sarà mai pace per chi ha apprezzato C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, e nonostante sia passato già quasi un anno da quando i giornali ne iniziarono a parlare, tale pellicola continua ad acquistare prestigio, vuoi innanzitutto per i riconoscimenti, meritatissimi tra cui gli Oscar 2020, vuoi per l’importanza storica dei personaggi che nel film ne hanno riscritto la storia dei personaggi stessi.
Ed è esattamente questa la chiave di ricerca delle nostre ambizioni tarantinesche, qualora ci dovessimo imbattere in una nuova avventura nella costanza che il geniale regista americano ha incarnato soprattutto in Django Unchained, Bastardi senza gloria e l’ultimo appena espresso.
Sì, perché come Quentin Tarantino stesso ha affermato, sono proprio questi tre film che vogliono ritagliare un ruolo importantissimo nella sua carriera di sceneggiatore, oltre che di regista, naturalmente. Riscrivere la storia in questa trilogia ha fatto parte di uno dei tanti progetti del geniale artista, e l’impressione che avviene ogni qual volta ci si imbatte nel momento in cui ci tuffiamo in tale avventura, ci incolla alla nostra umile postazione di spettatori della riscrittura degli avvenimenti a noi noti, intesi nella ristrutturazione di una società migliore.
È come se oggi, appena usciti fuori dalla sala cinematografica, dopo esserci sorbiti tutti e tre i sopraccitati film, ci sentissimo completamente rinati e speranzosi di una nuova conquista morale e persuasiva del mondo che ci appartiene: senza schiavismi, senza le conseguenze dei totalitarismi del ‘900, senza l’epilogo americano triste degli anni ’70, decennio di sogni e utopie registrate nel subconscio dei più autentici sognatori libertini.
C’era una volta a Hollywood ha il fascino negli attori stessi che lo interpretano, innanzitutto perché l’attrazione di quei tempi, che chiudono un decennio del sogno hippie americano, s’incarna nel marcato sex appeal delle interpretazioni, che incidono dannatamente nelle iridi degli spettatori incalliti: testimoni di una storia nella storia ed autentici testimoni della reinterpretazione di essa stessa.
Ritornerò e con un film western.
Avrebbe dichiarato lo stesso Quentin Tarantino qualche anno fa, quando tutti eravamo ancora sulle spine, e non aveva tutti i torti: C’era una volta a Hollywood, oltre ad essere una testimonianza viva e tangibile del 1969 hollywoodiano, è un film nel film, o meglio una fantastica ed autentica ricollocazione del mito dei western in un epoca che ricorda cinquant’anni or sono. Ecco dove anche risiede la grandezza di Quentin Tarantino.
Come Effetto Notte di François Truffaut, ci si tuffa nella personalità, nei segreti e nelle debolezze degli attori, proprio mentre si sta per ritrovarsi sul set, o poco prima che tutto ricominci, soprattutto nella combattuta condizione del protagonista Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), che dopo il successo di serie TV e B movies, si ritrova a lavorare per le grandi industrie cinematografiche hollywoodiane, ma dove capisce che non riuscirà a decollare, vuoi per i limiti di età e interpretativi, vuoi per la mancanza di tatto di un grande attore che non sa come farsi accettare, vuoi ancora per l’eccesso del bere ed i vizi che alimentano l’indebolimento del fisico di un attore già fuori fase.
La sua sarà una continua voglia di ascendere all’Olimpo dei beneamati del mainstream cinematografico, e tale coniatura avrà luogo proprio quando si accorgerà di essere vicino di casa della coppia del momento: Roman Polanski e Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie), che lo affiancano con la loro fuoriserie cabriolet mentre corrono tra le colline di Cielo Drive fino alle rispettive abitazioni, ville mozzafiato dell’upper class.
La vera forza di Rick Dalton è interpretata nella sua controfigura, Cliff Booth (Brad Pitt), che lo affianca da qualche anno nei suoi film , e che gira le scene più pericolose, oltre ad essere una sorta di tuttofare del viziato attore: lo accompagna sul set anche se non vi deve per forza lavorare, oppure torna a casa di Rick Dalton per rimettere qualcosa in sesto qua e là.
I due sono diventati inseparabili, tanto è vero che quando Rick Dalton, per emergere di nuovo è “costretto” a volare fino in Italia (gli esempi sono i film di Sergio Corbucci e Sergio Leone) per far fruttare la sua carriera, Cliff Booth è sempre lì con lui.
Tralasciando un attimo il contesto storiografico, che è importante, cosa ha attratto nell’immaginario di chi lo ha captato come un messaggio tra le righe del regista stesso?
No, non è un’invenzione, ma un collegamento tra eventi scatenatisi poco prima dell’uscita del film. Quentin Tarantino ha dichiarato di voler arrivare a dieci film al massimo, e che quest’ultimo, il nono della sua carriera, sarebbe stato un apripista all’epilogo scoppiettante, che vorrà dichiarare come la terza parte di Kill Bill I e II. Ma cosa in realtà lega la storia nella storia, narrata e riscritta, con la vita del regista, che nel frattempo si è sposato ed è diventato padre, e che ha scelto di chiudere a breve con i film e dedicarsi al teatro o al massimo ai romanzi?
La sceneggiatura forse di per sé è già un romanzo, anche se quest’ultimo sarà sicuramente più difficile da scrivere, ma ciò non toglie che sia una sceneggiatura che un romanzo assumono il carattere di chi li scrive, e quindi sono lo specchio dei piaceri e delle paure dei suoi autori, racchiuse nei personaggi chiave.
La Hollywood del 1969 è il ricordo più o meno nitido di un Quentin Tarantino bambino, che accompagnato dai suoi genitori, inizia a sorbire le influenze fascinose del cinema; Rick Dalton è l’incarnazione stessa del regista, che si crede al tramonto della sua carriera, e si trascina con più fatica all’apice di un successo sì garantito, ma sempre più affannato, perché forse superato. Insomma, una cruda reinterpretazione delle sue paure di mezza età che a volte spingono a rivalutare le potenzialità e le accuratezze che non combaciano con l’immediatezza dei tempi correnti. Ecco però che appare Cliff Booth, belloccio, atletico e tuttofare, controfigura di Rick Dalton, pronto a farsi in quattro in prima persona quando l’attore protagonista non può mettere a repentaglio la propria pelle.
Cliff Booth è l’alter ego ribelle di Quentin Tarantino, potenzialità ancora accesa dietro il volto pacato del professionista; Cliff Booth è il lato più scaltro, strafottente, avventuriero e pratico del regista americano, il lato nascosto che non si dà per vinto e che continua a lavorare per meritarsi il contegno di una carriera sfavillante che non conosce limiti di età o di epoche che preferiscono il digitale alla pellicola in trentacinque millimetri.
La stessa Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie, nel film, durante un noioso pomeriggio assolato, si reca al cinema per rivedere un film in cui è protagonista, e allo stesso tempo saggia le reazioni del pubblico in sala che assiste alle scene più cool, e si diverte alle reazioni e alle ovazioni.
Ebbene, Sharon Tate è lo stesso Quentin Tarantino che da giovane si recò al cinema in anonimato per assistere alle reazioni del suo Reservoir Dogs (Le Iene) e capire le vere interpretazioni del pubblico pagante.
La scena finale del film, che non vuole neanche ora essere svelata nei confronti di chi non ha avuto ancora la fortuna di vederlo, è una rivendicazione di Rick Dalton, felice dopo il ritorno dall’Italia (patria dei film che hanno formato il carattere cosiddetto pulp del regista americano), che attua una vendetta non solo nei confronti della Storia che si sa, non è mai troppo giusta, ma soprattutto rivalutando la propria persona e combattendo fianco a fianco con Cliff Booth, che ora è davvero tutt’altro che una controfigura ma un testimone della rinascita dell’attore (e nell’inconscio, del regista) e manifesta il suo coraggio annientando il pericolo e riportando all’ordine le Storia.
C’era una volta a Hollywood è la mascherata, timida ma esplosiva confessione di un regista geniale, che neanche nell’ultima sedicente fase della sua carriera da cineasta ha voluto tradirci, e che si prepara al finale dello smantellamento totale di sé come protagonista assoluto. Ma intanto noto che si è fatto tardi ed è già ora di cena:
Qualcuno qui ha ordinato crauti flambé?