The Nothing dei Korn: una storia infinita
C’è quel vecchio detto che dice: “a volte ritornano”. Molto spesso però oggi lo si usa in maniera canzonatoria, quasi ilare, ed è come se si voglia preannunciare un ritorno a qualcosa di particolarmente anomalo che ci ha oltraggiati in passato.
Ebbene, sì, esistono dei ritorni, ma è chiaro che non tutto ciò che riappare può davvero influenzare le nostre ambizioni di oggi; non tutti i mali vengono per nuocere, e di male ora stiamo per parlare.
È tempo di anniversari per i Korn, band metal: venticinque anni dal primo disco omonimo e rivoluzionario e venti anni da Issues, capolavoro impressionante di brutalità, inventiva, freschezza e bravura messi insieme. Eppure qualcosa è accaduto, appena dopo l’uscita di Take a look in the mirror (2003): Brian “Head” Welsh, chitarrista geniale, innovatore e visionario, abbandonò il gruppo, forse per curarsi, forse per problemi di dipendenza, e si ipotizzò anche una rivalutazione del suo ego spirituale che addirittura lo avrebbe portato a diventare un pastore. Il batterista David Silveria pensò di prendersi una pausa, che però si dimostrò fin troppo lunga e quando si decise a ritornare fu respinto. Attualmente è in atto una disputa legale per i diritti d’autore tra lui e gli altri membri della band.
E’ ovvio che le cose quindici anni fa iniziarono a cambiare: la carriera dei Korn, a un decennio dall’esordio sembrava destinata a finire, soprattutto quando la musica mutò decisamente tono, l’elettronica s’intromise nel futuro blando di una comunicazione scarna e senza personalità, e il cantante Jonathan Davis divenne leader e immagine a tutti gli effetti, auspicando ad una carriera solista e parallela, oscurando i suoi compagni di viaggio.
Ma dicevamo che a volte ritornano…
E il nuovo album dei Korn, The Nothing, tredicesimo lavoro in studio della band “nu metal” americana per eccellenza, assume tutto l’aspetto di un ritorno alle antiche glorie, a un attacco agli errori commessi, ad una riuscita di un benvenuto deciso alle sonorità che li hanno resi grandi. La novità giunge sia dal ritorno di “Head”, di cui la band già festeggiò il suo nuovo ingresso con l’uscita di The serenity of suffering (2016), che aveva inaugurato una parentesi già gloriosamente vissuta –per fortuna-, e che sarebbe stato una felice anticipazione di ciò che abbiamo scoperto lo scorso 13 settembre, release date di The Nothing.
Altra particolarità arriva da una piacevole ispirazione tutta letteraria, suggerita dal cantante Jonathan Davis. L’album si ispira a La Storia Infinita di Michael Ende, libro che proprio nel 2019 compie quarant’anni, e che racconta la stupenda storia di Bastiano, il ragazzino che entra in un libro che sta leggendo e ne diventa il protagonista principale, il quale poi aiuterà il regno di Fantàsia a non cadere in rovina, in seguito al deperimento dell’ Infanta Imperatrice, la sovrana, che è afflitta da un male forse incurabile.
Bastiano, in realtà, si rifugia nel mondo della letteratura, perché è afflitto dalla tristezza sopraggiunta in seguito alla morte della madre, e la voglia di rendersi utile ad una nuova storia che lo distragga e lo faccia diventare vincitore della vita, gli offre la cura per andare avanti e dimostrare di essere più forte di quel male oscuro che sta per distruggere il regno di Fantàsia, Il Nulla. The Nothing, per l’appunto, è l’attuale specchio in cui si è ritrovato Jonathan Davis, il nostro Bastiano musicale, che ha perso l’ex moglie deceduta dopo una forte dipendenza e a cui l’autore era rimasto sempre amico, e che si è catapultato nel lavoro, nella quale disciplina ha immaginato la sua “storia infinita”, in cui probabilmente sogna di salvare la sua regina, che lo ha gettato nello sconforto più nero.
La ricchezza del contenuto di questo album straordinario è racchiusa tutta qui: una malinconia intrisa in tutte le tracce; il dark che si fa spazio a spallate e irrompe nella disperata ricerca di una cura che possa forse salvarci, perché siamo così persi che ormai nessuno può più trovarci:
I’m lost. You’ll never find me.
(Mi sono perso. Non mi troverai mai.)
La prima traccia, The end begins con la cornamusa suonata sempre da Jonathan Davis, ci ricorda piacevolmente l’intro del capolavoro Issues del 1999, e Cold, sembra sia un urlo di rabbia continuo, preso di forza da Take a look in the mirror del 2003, in cui un ritornello, anticipato da una ritmica da 2headbanging” pazzesca, è di una freschezza cristallina, che apre varchi di luce nello scompiglio mentale di Bastiano. You’ll never find me, uno dei singoli, è un ritorno –sì, ancora!- alle oscure sonorità di Life is peachy del 1996, e le chitarre che si rispondono a vicenda con riff nervosi e elettrici, poi si adagiano nel classico ritornello a cui la band californiana ci ha abituati e con i quali ci sentiamo a casa.
La voce di Jonathan Davis migliora come un vino di qualità: il suo graffiato può raggiungere parentesi brutali e orrorifiche, ma mai volgari, mentre un attimo dopo è capace di sussurrare le sue paure, e la volta successiva s’ingegna nelle tracce rap, che mai s’introducono con forza, ma arricchiscono la modernità del metal, quel genere a volte troppo sottovalutato, ma che è cresciuto di credibilità grazie anche alla sua band. Jonathan Davis ha sempre utilizzato la sua voce come uno strumento, a cui è capace di donare profondità, dolcezza, lamento, ma anche una forza sovrumana che urla fuori tutta la rabbia convulsa che ha dentro.
The darkness is revealing è una vera rivelazione di quella voglia di ricominciare da lì dove si era persa quella di proseguire per la propria strada e intraprendere percorsi che non appartenevano. La ritmica del nuovo batterista Ray Luzier emula abbastanza quella di David Silveria, ma regge benissimo il confronto, e , malgrado la quantizzazione elettronica utilizzata dal produttore Nick Raskulinecz, autore anche di ben sette canzoni, traspare dal suo strumento la sua personalità. Il basso di Reggie “Fieldy” Arvizu, probabilmente il motore portante di tutta la struttura, frusta a pieno la sua potenza, e non mancano le piacevoli parentesi in cui il nostro resta nelle tracce come unico performer, mentre anticipa con gloria i riff che giungeranno appena dopo.
Finalmente le chitarre di James “Munky” Shaffer hanno ritrovato la spalla più ovvia, “Head”; quel muro di suono inventato dai due che ha cambiato la storia del metal americano, e probabilmente mondiale, che ha influenzato band trash come Sepultura, con l’album Roots del 1996, e che ha avuto come fedeli seguaci i Limp Bizkit, il cui cantante Fred Durst diresse alcuni videoclip dei Korn.
Idiosyncrasy, quinto brano, sembra essersi catapultato dall’album Follow the leader del 1998, soprattutto grazie alla ritmica incalzante, quasi dance, che ritrovammo nel brano cult Got the life. Non cala tensione The Nothing, con Finally Free, in cui Jonathan Davis/Bastiano canta:
Where are you now?
(Adesso dove sei?)
I try to get through to you, nothing is saving you
( Ho provato a contattarti, non c’è niente che ti sta salvando)
How could I fail?
(Come ho potuto fallire?)
This life betrayed you, and you are finally free
(Questa vita ti ha tradito, e tu sei finalmente libero)
Il messaggio che comunica alla sua musa, l’Infanta Imperatrice, è chiaro: come potrei mai fallire nell’impresa, se il mio scopo è renderti libera, quando la vita ha voluto ingiustamente tradirti?
L’altro singolo Radiofriendly che in questi giorni si ascolta in tutte le radio, Can you hear me, è una sorta di ballad hard, parentesi agrodolce che alterna momenti di tepore e appena dopo con tappeti di chitarre, i cori e i synth appena espressi, in cui i Korn non si tradiscono ancora, e mai lo faranno nel corso del lavoro.
Can you hear me, ‘cause I’m lost
(Riesci a sentirmi?)
And I may never come back again
(E potrei potrei non ritornare mai più)
And why my heart keeps holding on
(E mentre il mio cuore continua ad aspettare)
I know I’ll never be the same again
(so che non sarò mai lo stesso di nuovo)
Bastiano sa che l’avventura sta cambiando la sua vita. La rivelazione di un’esistenza dedita alla conquista della fiducia del regno di Fantàsia non farà più voltarlo indietro negli errori commessi, e lo renderà un uomo migliore: non sarà più di nuovo lo stesso.
In The Ringmaster qualcuno gli dona conforto:
Dear, you have nothing to fear
(Caro, non hai nulla da temere)
Child, I’m the one who makes it also, oh, so, so much better
(Bambino, io sono quello che rende tutto, oh, molto più bello)
Migliore diverrà Bastiano, ed il suono che ci accompagna in questa fantastica avventura che sta per terminare, e più forte ancora il suo ego, infatti nell’undicesima traccia H@rd3r, egli si chiede però perché tutto questo stia succedendo, nonostante stia combattendo strenuamente, la sua vita stia prendendo una direzione davvero dura da concepire: un paradosso che appartiene a tutti, in fondo. Ma è nella traccia precedente, The gravity of discomfort, e nella successiva This Loss, che la band di Bakersfield torna con orgoglio davvero agli antichi fasti, dove cavalcano a pieno i loro anni Novanta, quando posero le pietre miliari che avrebbero fatto riferimento alle generazioni successive. Ma attenzione, perché The Nothing non è un’elevazione ai rimpianti, e non è certo uno scavare nelle proprie ferite.
La bellezza dark struggente di questo lavoro risiede non solo nella tematica drammatica che i Korn hanno sempre affrontato nel loro passato glorioso, perché sarebbe fin troppo evidente. La verità è che sono ritornati sui loro passi per una necessità emotiva, ed è proprio quando Jonathan Davis ha vissuto i dolori della perdita, che ha dimenticato quell’impareggiabile necessità di cambiare stile per confrontarsi con le nuove audience, e ha ricomposto con i ragazzi della band canzoni molto più sincere, più che romanzate, e l’idea di un concept ispirato ad un bestseller ha elevato questo album ad un valore ineccepibile.
Ci lasciamo coi versi dell’indimenticabile Emiliy Dickinson, simili alla tematica affrontata:
Un dono senza pretese, parole impacciate
sono i modi in cui al cuore umano
è rivelato il Nulla.
“Nulla” è la forza che il mondo rinnova.