Torna il Premio Ragusani nel mondo giunto alla sua XXVIII edizione. Come nella migliore tradizione, lo spettacolo che farà da contorno ai premiati sarà in linea con il prestigio della manifestazione, annoverando artisti di caratura internazionale.
Sabato 29 luglio 2023 in piazza Libertà a Ragusa andrà in scena la celebrazione dell’eccellenza.
È una ragusanità bella, positiva, vincente, quella che emerge dalle oltre duecento personalità di spicco che dal 1995 sono transitate sul palco del PREMIO. Testimonianze di straordinaria laboriosità, fantasia, intraprendenza, vivacità, inventiva, che si propongono come un modello virtuoso per le giovani generazioni, stimolo ed esempio per tutti. Ma diventano anche formidabile occasione per consolidare l’orgoglio della comune identità iblea in quanti coltivano l’amore e la passione per le tradizioni e il territorio. Con uno sguardo vigile rivolto al futuro. Protagonisti del mondo delle imprese, della tecnologia, della cultura, dello sport, che hanno preferito scommettere sulla loro permanenza nella terra di origine.
Storie umane e professionali di successo declinate in un premio che si rinnova nella continuità.
Spiega Sebastiano D’Angelo, organizzatore del Premio Ragusani nel Mondo e direttore dell’Associazione omonima:
Vogliamo rendere un pubblico omaggio, in modo semplice e spontaneo, a tutti quegli iblei che, al di là del concetto tecnico e classico di emigrazione, si sono affermati in Italia e all’estero.
Una straordinaria affermazione nel campo delle proprie attività imprenditoriali, professionali ed artistiche, dando lustro alla provincia di origine e contribuendo ad esaltare nel mondo le doti tipiche della nostra popolazione.
Dopo oltre un quarto di secolo di ininterrotta crescita, l’obiettivo primario è e rimane ricreare nuovi spunti di interesse nel Premio. Ridare lustro e ulteriore vitalità a un evento oramai entrato nel cuore e nelle attese dei ragusani e non solo. Una manifestazione che, inserita nella più vasta attività istituzionale dell’Associazione Ragusani nel Mondo, promuove importanti e significativi flussi turistici. Soprattutto nel segmento del “turismo di ritorno”, nel quale il gruppo da anni è attivamente impegnato.
Un evento al passo con i tempi, uno spazio di riconosciuta rilevanza in campo nazionale e internazionale. Una festa collettiva che è anche veicolo di promozione del patrimonio ragusano e della Sicilia tutta, scandaglio di percorsi per prospettive di sviluppo economico. Un ponte virtuoso con il mondo. Anche la XXVIII edizione del premio proporrà personaggi che si inseriscono in questo filone di grande idealità.
Uomini di notevole spessore culturale e sociale, con significativi meriti accademici, fieri del loro lavoro ma non travolti dal successo ottenuto. Il loro esempio di vita arricchirà ulteriormente la galleria di straordinarie personalità che onorano la manifestazione e l’intera provincia. Fiera e orgogliosa di avere dato i natali ai suoi illustri figli. Appuntamento dunque al 29 luglio in piazza Libertà a Ragusa, per un’entusiasmante serata di cultura, promozione e innovazione che si fanno spettacolo.
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Il ballo delle pazze: il film di Mélanie Laurent
Il ballo delle pazze (2021) è un film di Mélanie Laurent ispirato dall’omonimo romanzo di Victoria Mas.
Il lungometraggio mostra la situazione dei manicomi in Francia durante il XIX secolo, periodo in cui la medicina iniziava a muovere i primi passi verso lo studio dei disturbi legati alla pazzia e collegati ad un mal funzionamento neurologico.
Il luogo in cui si svolge la pellicola è la Salpetriere, progettato nel 1656 dall’architetto Liberal Bruant su incarico del re di Francia Luigi XIV, che oggi è un rinomato centro ospedaliero universitario di Parigi.
La Salpetriere inizialmente era nata per altri scopi: era più precisamente una prigione, nel tempo si è trasformata in un manicomio in cui venivano rinchiusi coloro che potevano nuocere alla società e alla politica del tempo.
Molte delle persone che vi albergavano non erano realmente affette da disturbi mentali, erano semplicemente esseri umani che vivevano male e mal tolleravano i costumi del tempo e i codici comportali da seguire per “il quieto vivere” sia privato che pubblico.
Non era difficile trovare all’interno di questa struttura donne che volevano vivere più liberamente la propria vita non sposandosi o non potendo godere della stessa parità e dignità sociale al pari di un qualsiasi uomo, che decideva di intraprendere lo stesso percorso. Tali desideri, al tempo, venivano considerati folli.
Una malattia spesso diagnosticata, a quel tempo, era la malinconia, una follia senza febbre o furore, accompagnata da timore e da tristezza. Su questo periodo storico, sul concetto di follia, di malinconia e sul ruolo sociale e politico della Salpetriere ne ha parlato in modo dettagliato Michel Foucault, noto filosofo e storico della filosofia, nel suo libro Storia della follia nell’età classica (1961).
Ecco come descriveva il filosofo questo disturbo mentale nel suo libro:
Le cause evidenti della malinconia sono tutto ciò che fissa, esaurisce e turba gli spiriti; grandi e improvvise paure, violente emozioni dell’anima causate da trasporti di gioia o da violente emozioni dell’anima causate da trasporti di gioia o da vive impressioni, lunghe e profonde meditazioni su uno stesso oggetto, un amore violento, le veglie, e ogni veemente esercizio dello spirito, soprattutto se impegnato di notte; la solitudine, il timore, l’isterismo, tutto ciò che impedisce la formazione, la rigenerazione, la circolazione, le diverse secrezioni ed escrezioni del sangue, particolarmente nella milza, nel pancreas, nell’epiploo, nello stomaco, nel mesenterio, negli intestini, nelle mammelle, nel fegato, nell’utero, nei vasi emorroidali; per conseguenza, il male ipocondriaco, certe malattie acute mal guarite, soprattutto la frenesia, tutte le medicazioni o le escrezioni troppo abbondanti o soppresse, e quindi il sudore, il latte, le mestruazioni, i lochi, il ptialismo e la rogna.
In breve la malinconia era ovunque.
Il ballo delle pazze di Mélanie Laurent: trama del film
Protagonista della pellicola è Eugénie (Lou de Laâge), una giovane donna borghese, radiosa, piena di vita e di curiosità verso il mondo.
Sin da piccola scopre di avere una connessione speciale con il mondo metafisico: sente e vede gli spiriti dei defunti. Eugénie riesce a tenere nascosto il segreto fin quando una sera mentre sta spazzolando i capelli alla nonna, come è solita fare tutti i giorni, all’improvviso entra in trance e con sguardo assente inizia ad aprire dei cassetti, trovando un antico monile di famiglia.
Il gioiello era della nonna, che credeva di averlo perso da oltre quarant’anni, era un pegno d’amore che il marito le aveva regalato in gioventù. Quando la donna chiede alla nipote come avesse fatto a trovarlo, Eugénie risponde che gli ho la detto il nonno, morto da ormai tanti anni.
Da qui la decisione del padre di rinchiuderla a la Salpetriere soprattutto a fronte di richieste passate della figlia, che voleva frequentare caffè letterari e uscire da sola per la città. Atteggiamenti poco convenevoli per la società del tempo e che avrebbero potuto pregiudicare il buon nome dell’intera famiglia.
All’interno di questo manicomio la giovane entra in contatto con molte donne che come lei, che di insano hanno ben poco e inizia a rendersi conto che molte degenerazioni mentali sono causate stesso dalle “cure” che i medici assegnano. Molte donne recluse diventano delle cavie che vengono mostrate dai medici solo per alimentare un lustro accademico, come fossero animali da circo.
Questo messaggio è reso più chiaro durante il ballo che, una volta all’anno, si organizza alla Salpetriere in cui sani e folli si mascherano e si uniscono, confondendosi. Un’immagine che rende chiaro il confine labile, sottile e a volte impercepibile che intercorre tra normalità e pazzia.
Per scoprire il resto non vi resta che guardare Il ballo della pazze di Mélanie Laurent su Amazon Prime Video.
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Fabrizio De André Volume I. Spirito libero e spiritualità
Il primo LP di Fabrizio De André, il nuovo poeta e cantore della scuola genovese, fu realizzato inizialmente nel 1966, quando era ancora legato al contratto con l’etichetta discografica Karim, che qualche anno prima lo aveva scoperto e lo aveva introdotto nel panorama musicale già dal 1961, con la produzione di diversi 45 giri, tra cui La guerra di Piero o La canzone di Marinella, quest’ultimo brano reso in realtà famoso da Mina, che lo aiutò a raggiungere il successo.
Tale obiettivo non interessava granché Faber, appellativo a cui pensò l’amico d’infanzia Paolo Villaggio (dalle matite Faber-Castell), con cui nel 1963 firmò la canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Il cantautore continuava con tranquillità a curare l’amministrazione di tre scuole private a Genova, eredità trasmessagli dal padre Giuseppe, imprenditore e personaggio politico di spicco.
Fabrizio De André considerava la musica “una cosa serissima”, talmente seria da rifiutare le esibizioni dal vivo e un’assidua pubblicità ai lavori discografici, tra cui le interviste, che erano così rare che di lui emergeva davvero poco, se non le sue creazioni sublimi.
Il primo vero LP, dicevamo, uscì con la Karim, sotto il nome di Tutto De André, e includeva dieci brani, nulla di nuovo, dato che avevano già visto la luce in formato da 45 giri fino al 1966, quindi in quell’anno stesso.Faber, nel frattempo, non si era fermato, anzi, considerando la sua diatriba con la suddetta etichetta, che era stata accusata dal musicista di mancata corrispondenza dei diritti d’autore ricavati dalle vendite, aveva già cominciato a lavorare a nuove canzoni, ammaliato dalla Bluebell Records, che gli aveva proposto un nuovo contratto.
Peccato però che quello vecchio non fosse ancora terminato, e tale circostanza aumentò le tensioni tra le due parti, e indusse una nuova causa, questa volta da parte della Karim, che accusò il cantautore di non aver rispettato i termini fino alla fine dell’accordo.
Molto probabilmente già abituato a tali circostanze scomode,senza dubbio aiutato dalla sua notevole posizione economica, in quanto c’era una terza denuncia in corso, e riguardava proprio il brano scritto a quattro mani con Paolo Villaggio, che il Tribunale Penale di Milano aveva dichiarato offensivo per la morale, e che addirittura si raccontava che contenesse fini pornografici.
Volume I (1967), il primo vero album di inediti di Fabrizio De André, vide la luce nel 1967 e fu anticipato dall’uscita dei singoli Preghiera in gennaio e Si chiamava Gesù, ambedue incluse in un formato da 45 giri.
L’unica canzone inedita, l’ultima della tracklist, fu proprio Carlo Martello, che aveva scatenato le accuse da parte delle autorità giuridiche, e fu inclusa nella scaletta di proposito, in accordo con la nuova etichetta discografica, la Bluebell Records.
La copertina, all’inizio, era di color marrone, ed aveva il volto del cantautore assorto, di lato, quasi come se non si vedesse. La registrazione, inoltre era in mono. La seconda e definitiva copertina, infine, con l’inciso in stereo, era bianca, con gli angoli smussati e un bel primo piano di Fabrizio De André, un po’ spettinato ma fiero. Anche la tracklist, con gli anni, cambia. La canzone Caro amore viene sostituita nel 1970 da La stagione del tuo amore, questo perché la prima citata, pur avendo chiare referenze al Concerto di Rodrigo per Aranjurez, non fu accettata dagli intestatari dei diritti.
La struttura del disco è di per sé molto semplice all’ascolto: in primo piano c’è una voce calda e baritonale, accompagnata da una chitarra classica, e ci sono alcune rare incursioni di altri strumenti. La sezione ritmica spesso è assente e non si presenta che con la destrezza sulla sei corde di Fabrizio De André, che paradossalmente si definiva come uno “alquanto scarso”, e con il supporto Gian Piero Reverberi, arrangiatore già nella Karim, e fedele collaboratore, arricchì le parti che figuravano strutturalmente più complicate.
Volume I e la filosofia degli emarginati
Luigi Tenco, volto iconico della scuola genovese, si suicidò a Sanremo nel gennaio del 1967, in seguito a un suo personale disaccordo con la giuria del festival, che non aveva apprezzato il suo brano in gara.
Fabrizio De André, caro amico ed estimatore di Luigi Tenco (si diceva che per avere successo con le ragazze si spacciasse proprio per il cantante di “Ciao amore, ciao”), apre il suo primo disco con una canzone che ricorda i drammatici momenti di Sanremo, Preghiera in gennaio, e tale intenso momento sarà subito coniato, e ricordato ai posteri, come il ricordo e l’omaggio più struggenti e giusti che si sarebbero potuti dedicare.
Il brano, oltre ad esprimere una reale ottica del suicidio, questo atto molto spesso accusato di pregiudizi e di critiche nonostante l’azione drammatica stessa, racconta, con la poesia intensa di Faber, la più giusta visione, che funge anche da filosofia decadente di carattere rimbaudiano.
Il significato dell’estremo atto assume un’espressione talmente notevole, da risultare come la tappa finale di una vita che ha espresso troppo spesso elevati disgusti sociali, che vittima di un’incomprensione a tutto spiano, figlia d’ignoranze e cattiverie, si oppone alle barriere di attuazioni ingiuste secondo la propria ottica, e soccombe al dono della vita, quest’ultima vista però più come un ostacolo che come un percorso:
Signori benpensanti
spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza
preferirono la morteLa seconda traccia, Marcia Nuziale, neanche si discosta dalle passioni del giovane cantautore. Questa, difatti, non è altro che il rifacimento di “La marche nuptiale” di Georges Brassens, chanteur francese da cui Faber prende e prenderà sempre spunto. Qui viene descritta, quasi in maniera distopica, la cerimonia nuziale di chi canta, che racconta di essere stato testimone di quei momenti memorabili, seppur essendo il figlio della coppia descritta in questione, che addirittura suona l’armonica, per accompagnarne i lieti momenti, che però purtroppo vengono disturbarti da un vento che porta con sè una tempesta imminente, che quasi non vuol far più celebrare nulla. La scena, a dispetto delle intemperie, che rischiano di far saltare tutto, descrive un amore fatto di gesti semplici come non se ne vedevano, “durato tanti anni da chiamarlo ormai d’argento”. Un amore che coniato innanzitutto da un affetto, si descrive come un’identità sincera a tutto spiano, a differenza di un qualsiasi matrimonio della borghesia, che viene celebrato per inerzia, guidato solo da interessi familiari. Qui è di casa la sincerità di una natura casta:
Matrimoni per amore, matrimoni per forza
Ne ho visti di ogni tipo, di gente d’ogni sorta
Di poveri straccioni e di grandi signori
Di pretesi notai, di falsi professori
Ma pure se vivrò fino alla fine del tempo
Io sempre serberò il ricordo contento
Delle povere nozze di mio padre e mia madre
Decisi a regolare il loro amore sull’altareSpiritual, la terza canzone, che presenta sprazzi di una combriccola canora di voci briose che si alternano al cantato principale, con una base inaspettata di un organo da chiesa che sostituisce la chitarra, rappresenta, dopo il primo brano in scaletta, la prima testimonianza di una spiritualità, oltre alla volontà di credere o meno alla religione cristiana, che si enuncia nelle parole che inducono a pensare ad una vera e propria preghiera, rivolta al “Dio del Cielo”; che quest’ultimo possa regalare una parentesi, seppur spicciola, di felicità, a chi ne sta cantando le lodi, in funzione di un contraccambio di un interesse del tutto casto ma essenziale:
le chiavi del cielo non ti voglio rubare
ma un attimo di gioia me lo puoi regalareSi entra poi nel vivo della devozione, seppur dedicata più ad un’entità fatta uomo che ad una santità ineccepibile. Qui chi canta tesse le lodi di un uomo che ha coniato la storia con le sue gesta.
Si chiamava Gesù è la narrazione che va al di fuori di ogni Vangelo, che sfida le agiografie, che smorza le preghiere, come quella della canzone antecedente, e mette a nudo un essere umano debole, che è stato assediato dal male del genere umano, nonostante egli abbia portato in Terra la gioia di saper trasmettere una bontà che molto raramente sarà emulata in seguito. Ci spiega Mauro Pesce, biblista, nella lunga intervista di Corrado Augias per il libro Inchiesta su Gesù(2016 – Mondadori), che “Gesù è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega Dio se si pensa di essere Dio”. Difatti ci canta Fabrizio De André:Non intendo cantar la gloria
Né invocar la grazia e il perdono
Di chi penso non fu altri che un uomo
Come Dio passato alla storia
Ma inumano è pur sempre l’amore
Di chi rantola senza rancore
Perdonando con l’ultima voce
Chi lo uccide fra le braccia di una croceÈ la volta di La canzone di Barbara.
Dal sacro, dunque, al profano. Il cantautore e poeta genovese qui ci porta nel tempio delle avventure amorose proibite, dell’incesto e addirittura dell’adulterio, e non sarà la prima volta nel lungo repertorio quasi trentennale che ne seguirà.
Barbara è una donna libera, che non cede all’amor comodo, e preferisce abbandonarsi ad avventure di un attimo, e forse già che celano un addio, dopo un atto consumato per sfuggire alla noia quotidiana, sia di uomini che inseguono un’avventura, oltre l’obbligata scia matrimoniale, sia di favorevoli concubini, che invece non trovano che un ostacolo, nonostante un lieto benvenuto:Lei sa che ogni letto di sposa
È fatto di ortiche e mimosa
Per questo ad un’altra età, Barbara
L’amore vero rimanderà, BarbaraVia del Campo, nelle note di Cesare G. Romana, nell’ultima e definitiva versione del primo album, viene descritta così:
Così la graziosa Via del Campo, la bambina ai cui piedi nascono i fiori, ma che vende a tutti la stessa rosa: la puttana che non potrà mai offrir altro che un paradiso provvisorio e, tutto sommato, inutile incantesimo di un quarto d’ora.
Di sicuro anche qui ne nasce una preghiera, in quanto la divinità prende le sembianze una “graziosa”, una fanciulla che vende le proprie bontà a chi la sceglierà per godere di quell’attimo in cui dimentica la bramosia del denaro, dei diamanti da cui “non nasce niente”, mentre dal “letame nascono i fior”
E ti sembra di andar lontano
Lei ti guarda con un sorriso
Non credevi che il paradiso
Fosse solo lì al primo pianoCuriosità: Via del Campo prende palesemente spunto da La mia amorosa la va alla fonte di Enzo Jannacci.
La stagione del tuo amore è una delle parentesi più dolci di questo disco incantato.
Si narra la sovente vicenda di un amore che tarda ad arrivare, e la rassicurazione del suo autore è designata “nella luce di un’ora”, che può nascondere in essa sia una gioia che un dolore, e quando però quest’ultimo viene sopraffatto da un momento di goduria e libertà sensoriale, allora l’attesa ne sarà a pieno ricompensata:Passa il tempo sopra il tempo
Ma non devi aver paura
Sembra correre come il vento
Però il tempo non ha premura
Piangi e ridi come allora
Ridi e piangi e ridi ancora
Ogni gioia ogni dolore
Poi ritrovarli nella luce di un’oraBocca di rosa, è senza alcun dubbio l’apoteosi tematico dell’album.
L’amore innanzitutto, e soprattutto lì dove l’amore è visto meglio nell’attimo di un momento, anziché nella penosa lungimiranza di una prospettiva a lungo termine, dove i fuochi iniziali vanno a perdersi nella quotidianità dei difetti e delle complicanze reciproche. La protagonista della storia/canzone è una donna che, come Barbara, si lega “per passione”, e fa all’amore con chi semplicemente lo cerca, e non importa se già impegnato, perché ella ha come un compito: regalar sogni, seppur di un attimo e lasciar un ricordo inossidabile. Solo che l’ira delle donne del paese (Sant’Ilario) riesce a scacciar via la donna che ha sottratto, finanche con l’immaginazione, la libertà dei propri consorti:Alla stazione c’erano tutti
Con gli occhi rossi e il cappello in mano
A salutare chi per un poco
Senza pretese, senza pretese
A salutare chi per un poco
Portò l’amore nel paese
C’era un cartello giallo
Con una scritta nera
Diceva addio bocca di rosa
Con te se ne parte la primaveraLa morte, penultima canzone, che conserva un tema che sarà – ed era già stato ricorrente- nella poesia di Fabrizio De André, è una sorta di consolazione per l’animo fragile, e allo stesso tempo una nemica brutale per l’uomo che attinge le proprie gesta al successo tanto agognato. Eppure questo estremo saluto al mondo terreno comporta un’equità che dapprima non si era definita. Una A Livella di Totò che viene riproposta in una forma canora che racchiude la stessa giustizia emblematica, che mette sullo stesso piano l’essere umano forte e quello debole, che nonostante l’estremo trapasso, accusano il nuovo misterioso viaggio in maniera differente, così come hanno vissuto le loro vite.
L’unica differenza sta nel chi li vede morire:
Straccioni che senza vergogna
Portaste il cilicio o la gogna
Partirvene non fu fatica
Perché la morte vi fu amica
Guerriero che in punta di lancia
(…)
Di fronte all’estrema nemica
Non vale coraggio o fatica
Non serve colpirla nel cuore
Perché la morte mai non muoreCarlo Martello, infine (vero titolo era Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers), è l’unico brano già edito, e con una musica che sa di Medioevo, battaglie e vittorie, narra la vicenda di Re Carlo che ritorna vincitore dopo aver sconfitto gli arabi, fermandone l’avanzata proprio in Francia e salvando il mondo occidentale. Il re, molto fiero del suo ritorno vittorioso, non ha di certo dimenticato le voglie smaniose di un uomo che è fatto innanzitutto di carne, e che quindi non dimentica le sue debolezze, come tutti. Adopera dunque, o comunque crede di farlo, le proprie gesta eroiche, per abbandonarsi con più facilità tra le braccia di una graziosa fanciulla, che nel frattempo fa il bagno in una fontana. Quest’ultima però non cede all’eroica vittoria del suo sire, e alla fine, quando l’atto viene consumato, ne presenta la parcella.
Re Carlo, dunque, non è altro che uno di noi, che paga con moneta la sua lussuria, che ha ottenebrato tutta la grazia della sua vittoria.
Con Volume I, prezioso documento musicale d’inestimabile morale poetica di spiriti liberi e spiritualismi, Fabrizio De André spianò per il futuro la sua elegante e anarchica dialettica incisa su note, che sottolineò per sempre le costanti e sempre più crescenti tematiche di un uomo più privato di beni preziosi, nonostante il rango sociale, a cui viene meno la bramosia, nell’esposizione delle proprie debolezze come fattore di perdita, o di morte.
Carmine Maffei
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L’arte dell’improvvisazione, letteratura e jazz: Julio Cortázar, Thelonious Monk e Charlie Parker
Si terrà giovedì 11 novembre alle 18.30 il terzo appuntamento della rassegna di letteratura internazionale Strane Coppie, ideata e condotta da Antonella Cilento, e quest’anno ospitata dal Monastero delle Trentatré a Napoli (Sala Maria Lorenza Longo – Via Armanni, 16 – Napoli), prezioso luogo al quale la scrittrice e giornalista ha di recente dedicato un reportage. L’evento sarà trasmesso in streaming sulla pagina Facebook Lalineascritta Laboratori di Scrittura.
Durante l’incontro, che avrà come ospiti lo scrittore Bruno Arpaia, il pianista Francesco D’Errico che si esibirà dal vivo, e l’attore Orlando Cinque, si racconterà l’“Arte dell’improvvisazione”, quella che lega in modo unico e originale la scrittura di Julio Cortázar, tanto simile a una partitura jazz, alla musica di Charlie Parker e soprattutto di Thelonious Monk.
Letteratura e musica, ma anche cinema. Cortázar ha messo in scena la straordinaria arte dell’improvvisazione in ogni sua storia, ha trasformato forme e moduli, ha esplorato confini. Quando scrive Le bave del diavolo, il racconto da cui è tratto Blow up di Antonioni, è a Henri Cartier Bresson che sta pensando. I suoi lettori affezionati sanno bene che ne Il persecutore compare l’ombra di Charlie Parker e che persino l’ombra del madrigalista Carlo Gesualdo turba le vite dei musicisti di un suo racconto.
Quello di giovedì sarà un incontro speciale, per osservare i punti in cui letteratura e musica si lambiscono, si influenzano, si contaminano, e per seguire il percorso che unisce “mostri sacri” che hanno fatto la storia del jazz e non solo.
L’unicità di Thelonious Monk nel panorama del Novecento ha, con quella di Cortázar, molte analogie: fuori dai canoni eppure capace di rielaborarli, il pianista americano segna e influenza intere generazioni.
Nel Giro del giorno in ottanta mondi (1967), lo scrittore argentino recensisce, con il suo stile rocambolesco e immaginifico, l’esibizione dal vivo di Thelonious Monk Quartet al Victoria Hall di Ginevra, il 27 marzo 1966:
Quando Thelonious si siede al piano, tutta la sala si siede insieme a lui ed emette un sospiro collettivo della misura esatta del sollievo, perché l’itinerario tangenziale di Thelonious sul palcoscenico ha qualcosa di un pericoloso cabotaggio fenicio con probabili incagli sulle sirti, e quando la nave di miele scuro con il suo barbaro capitano arriva in porto, la banchina massonica del Victoria Hall la accoglie con un sospiro come di ali acquietate, di tagliamare in riposo.
La rassegna Strane Coppie, organizzata dai Laboratori di Scrittura Lalineascritta, è realizzata grazie al sostegno di Banco BPM e alla collaborazione di: Instituto Cervantes Napoles, libreria Ubik di Napoli, Onlus L’Atrio delle Trentatré, strutture ricettive Chiaja Hotel e B&B Dei Decumani.
Tutti gli incontri saranno successivamente editati in LIS Lingua Italiana dei Segni e resi disponibili online. Strane Coppie 2021 proseguirà con altri due appuntamenti, il 2 e il 16 dicembre.
Per partecipare in presenza è necessaria prenotazione: info@lalineascritta.it
Gli incontri si terranno nel rispetto delle normative anti Covid vigenti.
Orario: 18.30
Luogo: Monastero delle Trentatré – Sala Maria Lorenza Longo – Via Armanni, 16 – Napoli
Ingresso: gratuito fino ad esaurimento posti consentiti
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